sciuto, d’indole mite e pacata e abborrente da ogni
maniera di stravizzo (gli stravizzi, fatti abituali, addormentano,
o, almeno, illanguidiscono gli affetti più vivi
e le memorie più care), a un soldato siffatto quattro anni
passati senza vedere la famiglia e il paese natìo dovevano
esser parsi assai lunghi! E gli eran parsi tali davvero; si
era sempre mostrato un po’ malinconico; in caserma, taciturno;
fuori, per lo più, solo. Nelle ore di libertà, mentre
i suoi compagni gironzavano pei giardini pubblici facendo
delle carezze interessate ai bimbi condotti per mano dalle
belle ragazze, egli soleva misurare in lungo e in largo la
piazza d’armi col mento inchiodato sul petto, o stava
seduto sur un sedile di pietra all’estremità d’un viale
solitario a disegnar dei fantocci nell’arena colla punta
dei piedi. E pensava sempre ai parenti, agli amici, ai
luoghi che non aveva più visti da quattro anni; e sopra
tutti e sopra tutto pensava a sua madre. Sua madre era
una povera contadina, vecchia, infermiccia, ma di natura
gioviale e intensamente amorosa; un cuor d’angiolo.
Dei suoi figli, quel ch’ell’amava con più viva tenerezza
ed anche con un cotal sentimento particolare di sollecitudine
e di pietà gentile, era il figlio soldato; cosa naturale.
E gli scriveva o gli faceva scrivere di frequente,
e le sue lettere lette, rilette e baciate e ribaciate e portate
lungamente in seno come una reliquia di santo,
avevano virtù di mitigarle d’assai l’amarezza di quella
lontananza. E così al figlio le lettere della madre. Ma
sì! ci vuol altro! La carta, alla fin fine, è carta, e le
madri amorose li voglion vedere, i figliuoli, li vogliono
aver sotto gli occhi, vogliono toccarseli colle mani e baciarseli
in fronte dieci e dieci volte d’un fiato; e ai figliuoli
non basta il saper che quella cara testa dai capelli
bianchi è a casa e pensa a loro; vogliono stringersela fra
le braccia, quella testa; voglion posarci la bocca sopra,