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sommesso e svogliato; un po’ per la spossatezza e la sonnolenza, e più per quell’attonitaggine, quello stordimento da cui suol esser presa la mente quando ci troviamo per la prima volta in mezzo a una città sconosciuta e rumorosa.

In mezzo alla serietà taciturna d’un piccolo gruppo di soldati che stavan seduti sulla gradinata d’una chiesa accanto alla caserma, spiccava in singolar modo la gaiezza irrequieta e l’incessante parlantina di uno di loro, bassetto della persona, di forme esili e snelle e di volto imberbe e simpatico per due grand’occhi color del cielo, il quale saliva e scendeva e risaliva continuamente la gradinata, saltellando a mo’ di un ragazzo; e si fermava ora accanto all’uno, ora accanto all’altro, ed empiva l’orecchio di chiacchiere a tutti, e a questi tirava le falde del cappotto, a quell’altro levava dal cheppì la nappina per posargliela sulle ginocchia, a un terzo metteva le mani sugli occhi dicendogli. Indovina! — Insomma, pareva che avesse l’argento vivo addosso. Passando davanti a quella chiesa, lo notai; mi fermai rasente al muro opposto della via, e stetti qualche minuto a guardarlo, pensando quale potesse mai essere la cagione di quella tanta e così strana festività. La fisonomia aperta e piacevole di quel soldato mi si scolpì nella memoria. Mi allontanai.

Il dì dopo mi venne fatto di sapere, per mero accidente, ciò che avevo dimandato a me stesso la sera. Quel soldato era soldato da quattr’anni; per una serie fortuita di casi che non importa narrare, dal dì della sua partenza da casa fino a quel giorno, egli non aveva ancora ottenuto un congedo, nemmeno brevissimo, per ritornare al suo paese e rivedere la sua famiglia. Quattr’anni! A un soldato, come seppi ch’egli era, di cuore, svisceratissimo

dei suoi parenti e del luogo ov’era nato e cre-


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