Non men che dotte amiche stanze, dove
Undici nazioni in una sera,
La Cinese tra lor, concordi e giusti 140Offerivano incensi ad Isabella1;
A Isabella, che ohimè! le stanze usate
Or non abita più fuor che dipinta.
Dei garzon vispi e delle vaghe donne
Eletto, più che folto, era lo stuolo. 145V’avea quella gentil2, cui Milan cesse,
Onde il famoso germogliasse ancora
Ceppo del non degenere Soranzo:
L’altra3 v’avea, per cui tonâr di gioia,
Quando la salutò sposa Rialto, 150E la natia Verona in pianto stava,
I bellici tormenti, e tanta udissi
Di cetere armonia sull’onde salse.
Agile, come ai passi, ai cari motti,
Non mancava colei4 che le sue sale, 155Prospettanti di Marco il nobil foro,
Apre a lauti convivi e allegri balli:
Nè lei5, che troppo spesso il bel sembiante
E i vezzi accorti alle cittadi invola,
Per dilettar di sè Tempe frondosa; 160Ch’io vidi, io stesso, al traduttor6 di Flacco
Figgere un dardo nel non vecchio core:
O la dolce compagnia7, a cui bambina
Dava l’Adria contento il proprio nome,
Presago che dovea la pargoletta 165Redar dell’ingegnosa amata zia
(Che illustrò di Vinegia i dì festivi)