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Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/116

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104 CAPITOLO TERZO


Don Emanuele, che teneva gli occhi fissi sull’arciprete, come per dominarne e dirigerne la parola facile alle imprudenze, alle sconsideratezze bonarie, ebbe nello sguardo e nella persona un impulso tanto evidente di offerta, che l’arciprete lo afferrò subito.

«Volìo parlar vu?» diss’egli. «Parlè vu!»

E don Emanuele, rientrando prontamente nel suo guscio freddo di compostezza prelatizia, parlò, ben sicuro di non guastare, come l’arciprete avrebbe fatto, certa delicata macchina messa in moto, forse con poco utile del prossimo, ma indubbiamente, secondo il cappellano, per molta gloria di Dio. Egli si credeva più accorto dell’arciprete per la grammatica di finezze che aveva studiata; ma s’ingannava. L’arciprete era un accorto per natura, un accorto inconscio al quale giovavano, per i suoi fini, anche le imprudenze e le sconsideratezze del parlare. Per esso appariva semplice a chi lo conosceva poco; forse non c’era in paese nessuno che lo conoscesse molto, tranne il signor Marcello e donna Fedele, ai quali bastavano due o tre conversazioni, due o tre fatterelli, per cogliere una figura morale.

«Ecco» disse don Emanuele, «si tratta di salvare una povera figlia.»

«Ah! - Sì! - M’immagino, m’immagino» fece la siora Bettina, illuminandosi di una contentezza verniciata di compunzione. «M’immagino.»

L’argomento era spinoso e doloroso, ma la briga era piccola. La giovine sorella della sua donna di servizio era assediata da un corpo del R. Esercito e dall’anima perversa del medesimo.

«Eh lo so!» riprese sospirando. «Lo so pur troppo. L’ho saputo ieri e voleva anzi parlarne io all’arciprete.»

«Sì a tòrzio, sì a tòrzio, fiola» mormorò don Tita, volendo dire ch’ella prendeva abbaglio. E il tono della