Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/115

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TRAME 103

forte perchè lo sapeva benissimo e le pareva che ammettere di saperlo, di aver tollerato in silenzio che le si affibbiasse il titolo di Terza Persona della SS. Trinità, fosse quasi confessare una colpa.

«I ve ciama» proseguì l’arciprete «vardè che canaje!, la Spirita Santa. Xele canaje?» E diede in una bonaria risata mentre don Emanuele rimaneva impassibile.

«Un bel posto, capìo, ma ghe xe da far. Oh ghe xe da far! E ghe xe da far subito.»

«Il signor arciprete è sempre di buon umore, non è vero, don Emanuele?» disse la siora Bettina, alzandosi per andarsene. Ma il signor arciprete non intendeva affatto che se ne andasse e mise fuori una fila interminabile di «no no no» di «La favorissa, La favorissa, La favorissa.» Siccome in quel momento era entrata la fantesca per portar via il vassoio del caffè, don Tita le ordinò di andarsene.

«Lassène quieti» diss’egli. E, per maggiore cautela, passò nello studio attiguo col cappellano impassibile e colla siora Bettina, turbata dal timore di qualche briga, che fosse per capitarle addosso. Lo scherzo dell’arciprete le faceva supporre che si trattasse solamente di dare un consiglio; ma, però, anche questa era una briga. Per verità, ella non confessava a sè stessa di abborrire dalle brighe; credeva soltanto di abborrire da ogni dubbio di coscienza, e certamente ogni briga, sia di fatti sia di consigli, porta con sè qualche dubbio di coscienza. In passato il suo direttore spirituale le aveva consigliati certi libri fatti apposta per compiere molto bene, nell’anima sua, l’opera di una incipiente paralisi scrupolifera.

«Ecco qua, cara Bettina» cominciò l’arciprete. «Se no se tratasse de la gloria de Dio e del ben del prossimo, no ve incomodaressimo; vero, don Emanuele?»