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102 CAPITOLO TERZO

superiore, una direzione spirituale più conforme allo spirito del Vangelo, non avrebbero atrofizzati nella siora Bettina gli affetti non pericolosi che avevano resa amabile la sua fanciullezza e l’adolescenza. Ella non somigliava per questo verso a don Tita, somigliava piuttosto al cappellano. L’allegro don Tita era proclive alle amicizie, aveva facili le comunicazioni con tutti. Don Emanuele non aveva mai avuto un solo amico; a vederlo fra la gente allegra faceva l’impressione di un corvo attonito fra un chiasso di galli e di galline. Ma don Emanuele non aveva ancora trovata la sua pace e la Fantuzzo sì. Sotto il suo spegnitoio ascetico ella non aveva tentazioni altre a temere che quella di prendere tre pandoli nel caffè e latte invece di due, quella di dire all’arciprete che smettesse di pulirsi la penna nei capelli diventati grigi, e quella di pregare il Signore che facesse morire la gatta scandalosa del calzolaio. Somigliava più a don Emanuele che a don Tita; e in fatto, senza formulare giudizi comparativi, chè ne avrebbe avuto scrupolo, sentiva per don Emanuele una riverenza, un’ammirazione che non amava esprimere, gli professava un culto interno molto acceso, mentre il suo culto esterno andava principalmente all’arciprete. Parlando dell’arciprete, la siora Bettina poteva talvolta sorridere; parlando di don Emanuele, non lo poteva.


Preso il caffè e latte, la Fantuzzo stese la mano alla veletta nera che aveva posata sulla tavola.

«Ben!» diss’ella. «Don Tita...»

Questa era la sua solita formola di congedo. Don Tita le stese incontro la mano spiegata.

«A pian! Fermi là! Savìo come i ve ciama, sta bona zente de Velo?»

«Gèstene mundi! mi no» rispose la cognata, arrossendo