Gli orrori della Siberia/Capitolo XXII – L'inseguimento dei cosacchi

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Capitolo XXII – L’inseguimento dei cosacchi

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Capitolo XXII – L’inseguimento dei cosacchi
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Capitolo XXII – L’inseguimento dei cosacchi


Fra le urla del vento e gli ululati dei lupi, avevano udito distintamente un lontano vociare, che non si poteva confondere col fracasso della bufera.

Erano voci umane, forse grida di cosacchi; cosa strana però, non venivano dalla vallata, anzi si sarebbe detto che rimbombavano all’opposta estremità della galleria, nella caverna degli orsi.

La giovanetta ed il polacco s’erano guardati l’un l’altro, col più vivo stupore. Ed infatti, come si poteva supporre che degli uomini si fossero introdotti nella caverna dei torquati?... E poi da qual parte, se Dimitri non aveva veduto che una stretta apertura situata ad un’altezza straordinaria, in cima alla vôlta?... Forse le voci venivano da quella parte, non ben distinte, anzi assai confuse come un gridìo lontano.

– I cosacchi?... – s’era domandata Maria, impallidendo nuovamente.

– Adagio, padrona, – rispose Dimitri. – Possono essere dei cosacchi, ma anche dei cacciatori. Quello che mi sorprende è di udire quelle voci provenire dalla parte della galleria.

– Che questa caverna abbia qualche comunicazione coll’esterno?...

– In tal caso i torquati sarebbero fuggiti. Aspettate, padrona, guardiamo che cosa fanno i lupi.

Dimitri si era spinto verso l’entrata della caverna per osservare i predoni della steppa. Quegli ostinati animali, pareva si fossero accorti di quel gridìo che annunciava loro l’avvicinarsi di nuove prede o di nuovi nemici, poiché alcuni s’erano alzati e fiutavano l’aria e tendevano gli orecchi, girando la testa, come se non sapessero da qual parte venivano quelle grida umane.

– Non è dalla parte della vallata che viene il pericolo, – disse Dimitri. – I lupi sarebbero di già partiti per la caccia.

In quel momento vide giungere, correndo a tutte gambe, l’jemskik.

Portava le zampe deretane dell’orso che aveva staccate per preparare un delizioso arrosto, ma pareva anche in preda ad una viva agitazione.

– Signora!... Dimitri!... – esclamò. – Noi stiamo per venire sorpresi dai cosacchi!...

– Dove sono? – chiesero ad una voce Maria ed il polacco.

– Io non lo so... ma ho udito le loro grida.

– Vengono dalla caverna degli orsi? – chiese Dimitri.

– Sì, da quella parte.

– E i torquati?

– Non ne ho veduto alcuno finora.

– Dove sono adunque quegli uomini? – chiese Maria. – Bisogna saperlo, Dimitri.

– Venite, padrona, – rispose il polacco. – Tu Fedor bada ai lupi, e noi, signora, andiamo nella galleria. È carico il vostro fucile?...

– Sì, Dimitri.

– Seguitemi; noi spiegheremo questo mistero.

Il polacco prese un altro fastello di rami per ravvivare il fuoco della galleria, onde impedire ai torquati di tornare alla carica, e si cacciò sotto le vôlte, seguìto dalla giovanetta, la quale teneva un dito sul grilletto del fucile.

Giunti presso il falò, entrambi s’arrestarono, non osando oltrepassarlo.

Gettarono sui tizzoni il fastello, poi si misero in ascolto.

Dapprima non udirono nulla, ma poco dopo distinsero nettamente una voce che diceva:

– Vi dico che sotto di noi qualche cosa brucia!...

Il polacco e Maria alzarono vivamente la testa. Quella voce pareva che fosse scesa dall’alto, proprio sopra di loro. Fu per entrambi una rivelazione.

Il polacco prese un tizzone infiammato, l’alzò più che poté, proiettando sulla vôlta uno sprazzo di luce.

– Avete veduto, padrona? – chiese Dimitri.

– Sì, una larga fessura, – rispose la giovane.

– E quella fessura comunica colla cima della grande roccia; non si può ingannarsi.

– Forse è una specie di tubo dotato d’una sonorità straordinaria, Dimitri.

– Zitto, signora... Ascoltiamo!...

Gli uomini che stavano sopra la grande roccia che si addossava alle colline della vallata, avevano ripresa la conversazione.

– Vi assicuro, – diceva una voce, – che entro questo buco si fa cucina. Non vedete questo fumo che esce lentamente, radendo le rocce?...

– Tu sei pazzo, Askoff, – disse un’altra voce. – Che in fondo a questa specie di budello arda del fuoco, non lo nego, ma che vi siano delle persone che fanno cucina non lo crederò mai. Questo foro è così stretto da non permettere ad una persona, sia pure magra come un lupo a digiuno da tre settimane, di passare. Tu non hai cervello, Askoff.

– Vuoi dire, Bodarkit?...

– Che io non sono così sciocco da affermare che le persone che hanno acceso il fuoco, siano passate per questo foro?...

– E vuoi concludere?

– Che hanno presa un’altra via.

– Eh!... Che tu sia più furbo di me, Bodarkit?...

– Lo spero, amico Askoff.

– Allora tu credi...?

– Che questo foro comunichi con qualche cavità.

– Che la nostra buona stella ci abbia condotti proprio nel rifugio di quella indiavolata ragazza?...

– Io non ne dubito.

– Bisogna avvertire i compagni, Bodarkit, l’entrata della caverna. Vedi nulla tu?...

– Non scorgo che dei lupi giù nella valle.

– Dei lupi!... Buon segno!... I lupi inseguivano la troika, me lo disse il maresciallo.

– Andiamo a cercare i compagni e cerchiamo di scoprire il rifugio. Eh!... Toh!... Guarda, il fumo non esce più.

– Avranno terminato di far cucina. Vieni e non perdiamo tempo.

Maria e Dimitri avevano ascoltato, in preda a una crescente ansietà, quel dialogo che annunziava loro un gravissimo pericolo. Ormai non si poteva più dubitare sulle intenzioni di quei due uomini. I cosacchi avevano seguite le tracce della troika, non ostante la burrasca e se le avevano poi smarrite, forse in causa del ventaccio che travolgeva la neve, erano però egualmente riusciti a trovare il rifugio. Il fuoco acceso nella galleria per tenere lontani gli orsi, aveva tradito i fuggiaschi, o meglio il fumo che aveva trovato uno sfogo più pronto in quel crepaccio che si prolungava fino sulla cima della gigantesca roccia.

– Dimitri, bisogna prendere una decisione, prima che i cosacchi ritornino, – disse la giovane.

– E quale, padrona? – chiese il polacco, coi denti stretti. – Abbiamo i lupi che c’impediscono la fuga.

– Tentiamo di rompere le loro file.

– E poi? – chiese Dimitri, incrociando le braccia. – Dovremo impegnare battaglia, far uso dei nostri fucili, e gli spari e le urla dei lupi faranno accorrere subito i cosacchi.

– È vero, – disse la giovane. – Allora non ci rimane che di arrenderci o di tentare una lotta disperata contro quegli uomini.

– Ah!... Se non ci fossero i torquati – esclamò Dimitri che pareva fosse tormentato da qualche idea.

– Cosa faresti?...

– Ci ritireremmo nell’ultima caverna barricando la galleria.

– Per farci assediare?...

– Sarebbe un assedio di breve durata, padrona. Sulla vôlta v’è un foro e si potrebbe forse raggiungerlo e fuggire ancora.

– Senza troika e senza cavalli?... Sarebbe la morte per tutti, Dimitri. E poi, come giungere fino alle miniere, senza un rapido veicolo?...

– Cosa volete tentare adunque, padrona!...

– La fuga.

– Verremo inseguiti dai lupi e dai cosacchi.

– I nostri cavalli non devono essere più stanchi, Dimitri, e tu sai che corrono come il vento.

– Lo volete, signora?

– Sì, Dimitri. Meglio tentare la lotta sulla steppa che attendere qui di venire presi come topi in trappola.

– Sia: io sono pronto a seguirvi, signora Maria.

– Andiamo, Dimitri; forse i cosacchi sono ancora lontani.

Lasciarono la galleria e tornarono alla caverna. L’jemskik fu tosto messo a parte del pericolo e dell’ardito progetto.

– Forse non riusciremo a sfuggire all’inseguimento, pure credo che sia il piano migliore, – rispose Fedor. – Padrona, io sono pronto a tutto.

– Attacca i cavalli e partiamo.

Mentre l’jemskik eseguiva l’ordine, Dimitri e la giovane si erano spinti fino all’uscita della galleria per vedere cosa facevano i lupi.

I feroci carnivori non avevano abbandonata la valle, però non si trovavano più raggruppati dinanzi alla caverna. Parevano inquieti e si vedevano galoppare innanzi ed indietro, a gruppo, aguzzando gli orecchi e fiutando l’aria.

Certamente dovevano essersi accorti della vicinanza dei cosacchi e temevano di venire presi fra due fuochi, ignorando che i nuovi arrivati erano in quel momento più loro alleati che loro avversari.

– Se i cavalli non si spaventano, passeremo addosso a quei branchi, – disse Dimitri. – Carichiamo i nostri quattro fucili e le rivoltelle e apriamo subito un fuoco infernale. Forse si decideranno a lasciarci tranquilli.

– Ed i cosacchi, dove saranno?... – chiese Maria.

– Finora non si scorgono nella valle. Forse si trovano ancora sulle colline.

– Speri, Dimitri.

– Forse.

– E dove fuggiremo?

– Al nord, padrona. Taglieremo la Wladimirka fra Nisne-Udinsk e Catulik e tenteremo di passare la Tungusca Superiore e di gettarci nella vallata della Lena. Più tardi, cessato il pericolo, penseremo ad accostarci ad Irkutsk.

– Signore, – disse in quel momento l’jemskik. – Sono pronto.

– Sono cariche le tue rivoltelle?

– Sì, padrona.

– Sferza senza misericordia, Fedor, – disse Dimitri. – Se i cavalli si arrestano, siamo perduti.

– Correranno, ve lo assicuro.

La giovane ed il polacco si erano slanciati nella troika, tenendo i fucili e le rivoltelle sulle casse che ingombravano la parte anteriore del veicolo.

– Avanti!... – comandò la giovane, con voce risoluta.

Fedor raccolse le briglie, stringendole bene nella mano sinistra, impugnò la lunga frusta e lanciò un fischio stridente, gridando poi:

– Avanti, mie colombelle!

Tre o quattro poderose frustate piombarono, scoppiettando, sui robusti dorsi dei tre cavalli e la troika si slanciò fuori dalla caverna colla rapidità della folgore.

L’apparizione del veicolo fu così improvvisa, che i lupi rimasero immobili a guardarlo, come se non credessero ai propri occhi, poi, presi da un subitaneo terrore, si dispersero, non così presto però da impedire ad alcuni di venire travolti fra le zampe dei cavalli.

Quando s’accorsero che si trattava delle prede, che avevano seguìte con tanto accanimento ed assediate nella caverna, alcuni drappelli tentarono di slanciarsi dietro ai fuggiaschi.

Era il momento atteso da Maria e dal polacco.

Con una rapidità prodigiosa scaricarono i quattro fucili, poi, impugnate le rivoltelle, aprirono un vero fuoco di fila, seminando il terreno di feriti e di morti.

I predoni della steppa, questa volta si persuasero che, continuando la caccia, avrebbero fatta una indigestione di piombo, anziché di carne, e cominciarono a rallentare la corsa, quindi a fermarsi qua e là in piccoli gruppi.

Un drappello, composto probabilmente dei più arrabbiati e dei più affamati, s’ostinò ancora a seguire la troika, tenendosi però ad una prudente distanza.

– Finalmente ci siamo sbarazzati di quelle canaglie, – disse Dimitri, deponendo il fucile. – Ora possiamo respirare liberamente.

– T’inganni, Dimitri, – disse la giovane, con voce alterata. – Il vero pericolo comincia ora.

– Quale pericolo?...

– Guarda lassù, Dimitri, sulle colline.

Il polacco alzò vivamente la testa, e tosto fece un gesto di furore.

Sulle colline, che si estendevano sopra la grande caverna, aveva scorto dieci o dodici cosacchi a cavallo, i quali si preparavano a scendere nel vallone per dare la caccia ai fuggiaschi.

– Maledizione! – esclamò il polacco. – Dopo i lupi anche quei cani delle steppe del Don! Non credevo che ci fossero già così vicini.

In quel momento si videro i cosacchi radunarsi sul margine dello scaglione roccioso, alzare i loro corti moschetti e fare una salva. Era una intimazione, un comando assoluto di fermarsi.

– Fatevi obbedire dai lupi, se quei predoni avranno voglia d’attendervi, – disse Dimitri. – Noi, cari miei, continueremo a fuggire, a dispetto delle vostre rozze siberiane. Ehi, Fedor!...

– Dimitri, – rispose l’jemskik.

– Bada che i cavalli non rallentino.

– Non temere; hanno intenzione di portarci molto lontano.

– Allora faremo correre i cosacchi.

– Dove devo guidarvi?...

– Taglierai la Wladimirka fra Nisne-Udinsk e Catuisk.

– E poi?...

– Continuerai a rimontare verso il nord.

– Benissimo: hip!... hip!... Avanti, mie colombelle!...

I tre cavalli, già bene riposati ed anche abbondantemente pasciuti, trottavano splendidamente, trascinando la troika in una corsa veramente vertiginosa. Pareva che quei tre superbi animali avessero compreso il pericolo che correvano i loro padroni, poiché, senza bisogno della frusta, acceleravano sempre, slanciandosi con crescente lena attraverso la pianura nevosa.

Intanto i cosacchi, vedendo che le persone che montavano la troika non accennavano arrestarsi, si erano slanciati animosamente sul pendìo delle colline per scendere nella valle e mettersi in caccia. Erano dodici, tutti in assetto da campagna, colle sciabole appese all’arcione, le carabine dinanzi la sella e le loro giubbe erano attraversate da immense cartuccere.

Sembrava però che non fossero troppo bene montati. Avevano certi cavalli piccoli, magri come fossero digiuni da tre mesi, col pelame lungo ed arruffato, che dava loro più l’aspetto di bestie feroci che di nobili corsieri.

Senza prendersi pensiero alcuno dei pericoli che offriva quella discesa così ripida ed interrotta da spaccature e da blocchi di ghiaccio, i dodici cavalieri si slanciarono animosamente giù dalle colline, incoraggiando i loro animali con hurrà feroci.

Parevano dodici aquile che scendessero una montagna in gruppo serrato, sfiorando la neve. Quei brutti cavalli, che si sarebbero potuti scambiare per dodici rozze destinate ormai al macello, pareva che tutti d’un colpo avessero acquistato uno slancio incredibile ed una muscolatura sorprendente.

Scendevano a precipizio, balzando come capre, puntando fortemente gli zoccoli delle gambe anteriori quando la neve sfuggiva o si screpolava dinanzi a loro, e volteggiando sulle zampe posteriori quando un crepaccio, non a tempo scorto, impediva il passaggio.

Altri cavalieri si sarebbero ben guardati dall’intraprendere una discesa così pericolosa, che poteva costare la frattura del collo o delle costole, ma pei cosacchi era un giuoco o poco meno.

Se grande è la fama dei gauchos della pampa argentina e quella dei cow-boys delle praterie del Far-West dell’America del Nord, i cosacchi sono tali cavalieri da non aver nulla da invidiare a quelli americani.

Essi non conoscono ostacoli quando sono sulla groppa dei loro corsieri.

Osano entrare a cavallo perfino negli alberghi, salendo le scale, per poi slanciarsi giù da qualche finestra, sempre insieme alla cavalcatura, già abituata a quegli scherzi.

Talvolta si slanciano giù perfino dai bastioni delle loro città, sempre tenendosi solidamente in arcione. Per tali cavalieri non doveva quindi riuscire molto difficile la discesa di quelle colline, per quanto fossero ripide e interrotte da ammassi di ghiaccio e da crepacci.

Appena giunti nel vallone, i dodici cavalieri si prepararono, formando tre piccoli drappelli, poi tutti si slanciarono dietro alla troika, la quale intanto aveva guadagnato un buon miglio.

Quantunque i fuggiaschi fossero fuori di portata dalle piccole carabine, pure i dodici cavalieri cominciarono a far fuoco senza mirare, come se avessero solamente l’intenzione di segnalare la loro presenza in quella valle.

– Ecco una cosa che m’inquieta, – disse il polacco, volgendosi verso Maria, la quale guardava più con curiosità che con terrore quei tre drappelli. – Preferirei che facessero fuoco addosso a noi.

– E perché, Dimitri? – chiese la giovane.

– Questi continui spari devono avere un significato poco promettente per noi.

– Credi che siano segnali?

– Sì, padrona.

– Che all’uscita della valle vi siano altri cosacchi? – si chiese la giovane con un brivido.

– Fedor, scorgi nulla? – domandò Dimitri.

– Finora non vedo che qualche lupo vagante, – rispose l’jemskik.

– Apri bene gli occhi e sii pronto a prendere un’altra direzione.

– Anche a tornare?

– Lo si vedrà.

– Avanti, mie colombelle!... – gridò l’jemskik, facendo fischiare e scoppiettare la frusta. – Giacché i cosacchi vogliono divertirsi, li faremo correre!...

La troika correva sempre, senza rallentare un solo istante. Essendosi la neve indurita pel freddo della notte, scivolava con maggior facilità senza stancare i cavalli.

Di quando in quando avveniva bensì qualche brusco trabalzo, prodotto dalle ineguaglianze del terreno o da qualche crepaccio che appariva improvvisamente dinanzi ai cavalli, senza che questi, trasportati dal loro slancio vertiginoso, riuscissero a deviare, ma erano piccoli inconvenienti che non ritardavano affatto la corsa.

I cosacchi, vedendo che i fuggiaschi, continuavano a risalire verso il nord con crescente velocità, si erano lanciati dietro la troika, urlando e facendo scoppiettare le loro lunghe fruste dal manico cortissimo.

I loro cavalli, malgrado quell’aspetto poco attraente, se non riuscivano a guadagnare terreno su quelli della troika, nemmeno ne perdevano.

Colla testa cacciata quasi fra le gambe, come è l’abitudine dei trottatori siberiani, balzavano con una leggerezza sorprendente, allungando più che potevano le loro magre zampacce, per guadagnare qualche mezzo metro di più sulla corsa ordinaria.

Nessun ostacolo li tratteneva. Balzavano sopra i monticelli di neve, i crepacci ed i tronchi d’alberi rotolati dall’alto delle rupi, senza mai rallentare la loro corsa indiavolata e senza mai perdere l’equilibrio, nemmeno quando erano costretti ad attraversare degli stagni gelati.

Nonostante i loro sforzi disperati non riuscivano però a guadagnare molto sulla troika, ed era da prevedersi che quella caccia sarebbe durata a lungo, e forse a vantaggio dei fuggiaschi, senza un improvviso accidente.

Infatti la troika aveva già attraversato tutto il vallone, quando lo strato nevoso bruscamente cedette sotto le zampe dei cavalli.

L’jemskik con una vigorosa strappata aveva cercato di trattenere gli animali, ma ormai era troppo tardi.

Si udì uno scroscio tremendo, come se si fosse spezzata una vôlta di ghiaccio, e la slitta precipitò in un baratro apertosi improvvisamente dinanzi alla slitta.

– Madonna!... Salvateci!... – urlò l’jemskik – abbandonando le briglie e la frusta. Poi slitta, cavalli e persone andarono sossopra, precipitando su di un letto di neve che fiancheggiava un piccolo fiume.