Gli ultimi filibustieri/Capitolo V - Il viaggio straordinario d'una botte

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Capitolo V - Il viaggio straordinario d’una botte

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Capitolo V - Il viaggio straordinario d’una botte
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Capitolo V
Il viaggio straordinario d’una botte


Scappati via Buttafuoco e Mendoza, il guascone era rimasto solo in mezzo alla strada, sotto la pioggia torrenziale, guardando con una certa ansietà i sei frati che indossavano delle cappe grigie e che portavano dei ceri fumosi, i quali resistevano ostinatamente all’acqua.

Il venerando drappello formato da barbe grigie, come abbiamo detto, era preceduto da un sagrestano zoppo che procedeva con delle strane mosse da ranocchio e che reggeva un secchio pieno d’acqua santa.

Il povero guascone sarebbe stato ben lieto di chiudere la porta in viso ai frati, quantunque buon cristiano, e di andarsene subito a dormire, ma a quei tempi non c’era da scherzare coi religiosi ed una qualunque offesa si poteva pagare assai cara.

Costretto a fare buona cera suo malgrado, don Barrejo, invece di chiudere la porta, spalancò i due battenti e ricevette cortesemente le sei barbe grigie, baciando ad ognuna di esse il cordone per mostrarsi buon cristiano.

— A che cosa devo l’onore della vostra visita ad un’ora cosí tarda, reverendi? — chiese. — Non vi è alcun morto qui da portare al cimitero.

— Vi sono però dei fantasmi, — disse un frate rubicondo e grosso.

— C’erano una volta.

— Come, c’erano una volta!... — esclamò il frate, inarcando le sopracciglia. — È appena mezz’ora che è venuto da noi un ufficiale delle guardie ad avvertirci che la vostra cantina era piena di satanelli.

— Ora però non ci sono piú, reverendo, poiché poco fa sono disceso e non ho piú udito nessun rumore, né veduto nessun satanello, né satanasso.

— Noi vogliamo vedere bene dentro in questa faccenda, — rispose il frate. — Le stregonerie non sono tollerate.

— Se i reverendi padri vogliono seguirmi, andiamo pure a dare la caccia ai fantasmi, — disse il guascone, prendendo un lume e mettendosi dinanzi al sagrestano-ranocchio che era piú bianco d’un cencio di bucato. Le sei barbe grigie scesero attraverso l’ampia scala, una scala quasi da palazzo, e giunsero ben presto in cantina, dove cominciarono subito a borbottare certe preci ed a trinciare una infinità di segni della croce.

Il guascone fingeva di borbottare anche lui qualcosa che non si capiva, e di quando in quando s’appoggiava contro il sagrestano-ranocchio, manifestando un grande spavento.

Quando le preghiere furono finite, il frate piú anziano cominciò a benedire le botti e le pareti per rimandare all’inferno spettri e satanelli.

Passando dinanzi alla grossa botte dove stava rinchiuso il disgraziato Pfiffero, si arrestò titubante.

— Che cos’è questo rumore che si ode lí dentro? — chiese, rivolgendosi al guascone.

— È vino nuovo che bolle, reverendo, — rispose don Barrejo, con grande serietà.

— Ne siete ben certo?

— Diamine!... Ce l’ho messo dentro tre giorni fa.

— Gorgoglia in un modo curioso.

— La cantina non è troppo fresca, quantunque sia molto profonda.

— Dove sono comparsi i fantasmi?

— Precisamente qui.

— Quanti erano?

— Due, reverendo.

— E il passaggio che conduce all’ossario del cimitero?

— Quale passaggio?

— L’ufficiale delle guardie mi ha detto che qui vi era una galleria.

— Sí, una volta, reverendo, poi è venuta una scossa di terremoto ed ha fatto crollare le vôlte.

Le sei barbe grigie fecero il giro della cantina, continuando a benedire, mentre don Barrejo cercava fra la botti un certo caratello che non sarebbe dispiaciuto nemmeno ai reverendi.

— Padri, — disse, quando stavano per risalire la scala, ormai persuasi di aver relegati per sempre tutti gli spiriti maligni all’inferno. — Io non ho dell’olio da offrirvi per le vostre lampade, perché sono un povero diavolo. Accettate però pel vostro disturbo questo caratello di vecchio Alicante.

— Grazie, buon figliuolo: servirà pei feriti che ricoveriamo al convento.

Don Barrejo lo mise sulle spalle del sagrestano-ranocchio e la comitiva ritornò nella taverna e quindi uscí nella via.

— Dieci giornate come questa, — disse il guascone, quando i frati se ne furono andati e la porta fu chiusa, — ed a te, mio povero don Barrejo, non rimarrà altra alternativa che di chiudere bottega per mancanza di vino.

«Che buco hanno fatto quest’oggi fra Mendoza, Buttafuoco, il Pfiffero, la ronda e poi i frati per sopra mercato.

«Al diavolo anche i fantasmi!

«Panchita!...»

Una voce che veniva dal di sopra rispose:

— Vieni a dormire, Pepito.

— Lascia che faccia i conti della giornata, — rispose il guascone. — Abbiamo lavorato molto quest’oggi. L’affare dell’eredità del Gran Cacico del Darien mi ricompenserà però largamente delle perdite, — aggiunse poi a mezza voce.

Stava per aprire un vecchio registro, tutto sgorbio e macchie d’inchiostro, dove nessuno avrebbe potuto certamente raccapezzarsi, fuorché il proprietario della taverna d’El Moro e sua moglie, quando si udí picchiare alla porta.

Tonnerre!... — esclamò il guascone, il quale cominciava a perdere le staffe. — È proprio scritto che questa notte io non debba né fare i miei conti, né andare a dormire? Al diavolo tutte le ronde di Panama.

Si alzò, scaraventando lontano lo sgabello su cui stava seduto, prese per precauzione la sua draghinassa ed aprí la porta.

Due uomini d’aspetto poco rassicurante, con ampi ferraiuoli e cappellacci immensi, tentarono di entrare, mentre uno di loro chiedeva:

— È vero che la vostra taverna è piena di spettri? Noi non abbiamo paura nemmeno del diavolo e vi offriamo di tenervi compagnia fino a domani mattina.

— Chi ve lo ha detto? — gridò don Barrejo, mostrando la draghinassa.

— Abbiamo veduto i frati uscire poco fa dalla vostra taverna.

— Ebbene, giacché non avete paura nemmeno del diavolo, andate a tenere compagnia a lui. Io non ho bisogno di nessuno.

E chiuse senz’altro la porta sul viso dei due sconosciuti, accompagnando il colpo con un tonnerre dei piú formidabili che fossero usciti mai dalle sue labbra.

— Questa è una notte d’inferno, — borbottò il brav’uomo. — O questi spettri faranno la fortuna della mia taverna o rovineranno completamente le mie tasche e porteranno via anche la lunga catena d’oro di Panchita.

«Birbante di Mendoza!... Quando c’entra lui, porta ovunque la rivoluzione. È vero che anche don Barrejo, che è qui che mi ascolta, quando ci si mette fa le sue.»

Aveva appena terminato i conti della giornata, constatando un’uscita di trenta bottiglie non pagate, senza contare il caratello regalato ai frati, quando fu di nuovo picchiato alla porta.

— Cane d’un lume!... — esclamò il guascone, furioso. — È questo che mi tradisce.

Riprese la draghinassa e per la seconda volta aprí.

Si trovò di fronte a tre o quattro altri individui di dubbia cera, i quali gli chiesero tutti ad una voce:

— È qui che ci sono gli spettri? Siamo venuti per spazzarli via.

— Basta la mia scopa!... — gridò don Barrejo. — Tonnerre!... Lasciate che i galantuomini, che hanno lavorato quindici ore su ventiquattro, si prendano un po’ di riposo. Filate!...

Vedendo il guascone a roteare minacciosamente la draghinassa, anche quegli ultimi nottambuli se la diedero a gambe sotto la pioggia sempre scrosciante.

— Che vengano a prendermi a gabbo? — si chiese don Barrejo, il quale perdeva la pazienza. — Il primo che viene a seccarmi ancora, lo afferro per la gola e lo mando a tenere compagnia a compare Pfiffero, parola di guascone.

«La notte è perduta, è quindi inutile guastare il sonno della mia dolcissima metà.»

Scosse tre o quattro bottiglie ed avendone trovata una semipiena la svuotò in due colpi, poi si allungò su due sedie, appoggiandosi contro il tavolino.

Il suo sonno non durò molto, poiché fu interrotto ben presto dallo squillare delle duecento campane che contava allora Panama e che tutte insieme formavano un tale baccano da scuotere anche i morti.

Quel breve sonno però lo aveva rimesso completamente in gambe, non avendo ancora dimenticato le sue vecchie abitudini d’avventuriero.

Aveva appena data la voce a Panchita perché si alzasse, quando udí bussare discretamente alla porta.

— Che sia un altro che viene a vedere i fantasmi? — si chiese. — Tonnerre!... Gli romperò la testa con un colpo di bottiglia.

Brontolando e bestemmiando, andò ad aprire e si ritrovò davanti un ragazzo indiano di dodici o quattordici anni, d’aspetto furbesco ed intelligentissimo, con occhi di fuoco e la pelle dai riflessi ramigni.

— Che cosa vuoi tu, furfante? — Gli chiese don Barrejo.

— Prendete, da parte di Buttafuoco, — rispose il ragazzo, consegnandogli il biglietto piegato in quattro.

Poi se ne fuggí, piú lesto d’un cervo, prima che il guascone avesse pensato a trattenerlo, scomparendo ben presto fra le fitte cortine di pioggia, non essendo il cattivo tempo ancora cessato.

— Qui dentro ci devono essere delle grandi novità, — borbottò il guascone, girando e rigirando la carta fra le dita. — Saprò io decifrare questi sgorbi? Quel caro Buttafuoco ama troppo la scrittura.

«Bah!... Una mania anche quella!...»

Allargò, come aveva l’abitudine, le sue lunghe e magrissime gambe, simili ad un immenso compasso, si mise una mano sul fianco destro e colla sinistra si cacciò sotto gli occhi la carta che era coperta di lettere grosse come ditali, poiché anche i gentiluomini allora si occupavano di frequentare piú le sale di scherma che la scuola.

Il guascone non era della forza del gentiluomo francese, quantunque anche lui avesse prese delle lezioni dal curato del suo villaggio, sicché dopo una mezza dozzina di tonnerre, pronunciati su tutti i tuoni davvero, dovette rinunciare e darsi del triplice asino.

Fortunatamente la bella taverniera era già scesa, e siccome ne sapeva molto piú di lui, non le riuscí difficile decifrare quegli sgorbi.

Quali terribili notizie conteneva quel bigliettino!... La contessina di Ventimiglia scomparsa e probabilmente prigioniera del marchese di Montelimar; Buttafuoco e Mendoza assaliti e con un altro prigioniero da unire al Pfiffero; la necessità quindi di mettere insieme i due uomini dentro la botte e di trasportarli altrove, per evitare delle sgradite sorprese da parte della polizia.

— In conclusione, che cosa vuole Buttafuoco? — chiese don Barrejo, il quale si grattava furiosamente la testa.

— Che questa sera tu gli conduca il fiammingo alla posada, senza levarlo dalla botte.

— Diventano pazzi questi avventurieri scatenati? Il rapimento della contessina deve aver fatto perdere loro la testa.

— Io credo il contrario, invece, Pepito mio, — disse Panchita. — Ti sbarazzano di quell’uomo che per noi costituisce un continuo pericolo.

«Pensa che cosa succederebbe se le guardie lo scoprissero dentro la botte.»

— Tu ragioni meglio del curato del mio villaggio, che si ostinava a cacciarmi in testa, come tanti chiodi, degli a e dei b. Condurre via quella botte non sarà cosa facile.

«È bensí vero che non sarò cosí stupido da farla viaggiare in pieno giorno.

«Tra là là, ci sono!...»

— A che cosa?

— Il problema è sciolto, — disse il guascone, prendendo una bottiglia d’aguardiente e riempiendosi un bicchierino. — Ad ogni passo io scopro una nuova America.

— E con tutte queste scoperte io non vedo altro che te che ti attacchi alla bottiglia dell’aguardiente, — disse la bella castigliana.

— Questa sera, prima del tramonto, andrai a chiamare tuo fratello. Egli è forte e grosso come un toro e fra noi due la botte verrà portata fuori dalla cantina.

«Raccomandagli di noleggiare un carretto qualunque per caricare il Pfiffero e anche l’altro che si trova nella posada.

«Come vedi, non ci voleva molto studio a risolvere la questione.

Quella invece che farà sudare sarà l’altra: la scomparsa della contessina di Ventimiglia.»

— Vuoi occuparti anche di quella? — chiese la castigliana, con inquietudine.

— Quand’è che i guasconi hanno dimenticato gli amici? — chiese don Barrejo, con voce grave, mettendosi le mani sui fianchi ed allargando piú che poté le sue gambe. — Ohé, Panchita, vi permettete delle osservazioni fuori di luogo.

— Io penso alla tua vita, Pepito, che può correre, da un momento all’altro, qualche grave pericolo.

— I guasconi, quando hanno una draghinassa al fianco, sanno difendersi contro tutti gli spadaccini di questo e dell’altro mondo. Ricordatelo Panchita.

Tracannò un altro bicchierino di aguardiente e andò a sedersi presso la porta, osservando le persone che passavano.

La storia degli spettri, colla relativa visita dei frati, doveva essersi sparsa fra gli abitanti del quartiere, poiché presso gli angoli delle case si raggruppavano delle vecchie comari le quali si additavano, dopo il segno della croce, la taverna d’El Moro.

Don Barrejo fingeva di non accorgersi di nulla e poi si occupava piú di certi tipi, che non aveva mai veduti bazzicare la sua osteria e che passavano e ripassavano, coi feltri inclinati insolentemente su un orecchio e le spade bene in vista.

— Se quei corvi credono di farmi paura, s’ingannano, — borbottò il guascone. — Devono essere tutte spie del marchese di Montelimar, perciò niente vino per loro.

E mantenne la parola. A piú riprese, alcuni di quegli individui sospetti, entrarono nella taverna chiedendo da bere, però don Barrejo, colla scusa che le botti erano state benedette troppo di recente e che i fantasmi potevano ritornare, un po’ scherzando e un po’ colle brusche li fece sloggiare al piú presto.

Quel giorno la taverna d’El Moro non vendette un bicchiere di vino, poiché la cera burbera del proprietario aveva fatto scappare tutti.

Verso sera, mentre l’uragano si rinnovava colla solita violenza, essendo Panama una città soggetta alle grandi siccità e anche agli interminabili acquazzoni, Panchita lasciava la taverna, mentre il marito chiudeva con fracasso le porte, per avvertire i vicini che non voleva essere disturbato.

Da un armadio aveva tratta una corazza irrugginita ed un elmetto e si era messo a strofinare vigorosamente or l’una ed or l’altro, continuando a borbottare come era sua abitudine.

Quando le credette abbastanza lucide, prese un lume ed una bottiglia di aguardiente, che aveva già prima sturata, e scese nella cantina, per vedere in quali condizioni si trovava il suo Pfiffero.

Scalò la grossa botte, alzò il coperchio e si lasciò cadere entro l’ampio recipiente, badando di non calpestare il povero fiammingo, il quale stava rannicchiato in fondo.

— Ohé, mastro Arnoldo!... — chiamò don Barrejo, scuotendolo vigorosamente. — A che punto siamo della vostra digestione?

Dapprima non ottenne per risposta che un rauco brontolio, poi le labbra del disgraziato, si agitarono come se volessero pronunciare qualche parola.

— Dite su, mastro Arnoldo, — disse il guascone, mettendogli la lampada sotto il viso. — Avete sete?

— Sí... da... pere...

— Sempre ai vostri ordini, mastro Arnoldo.

Gl’introdusse in bocca il collo della bottiglia e lo tenne fermo finché gli parve conveniente.

Guardò la bottiglia attraverso la luce: era mezza vuota.

— Eccellente, è vero, mastro Arnoldo? — chiese. — Scommetto che non ne avete bevuto mai di simile da quando siete nato.

Il fiammingo non rispose. Fulminato da una seconda sbornia, si era raggomitolato su sé stesso, ricominciando a russare.

— Lasciamolo riposare tranquillo, — borbottò don Barrejo. — Sarebbe un’imprudenza se gli facessi inghiottire tutto il contenuto della bottiglia.

Risalí, rimise a posto il coperchio, badando che non combaciasse, e tornò nella taverna per indossare la corazza e mettersi in testa l’elmetto.

— Eccomi tornato armigero, — disse, con sospiro. — Ah!... Quelli erano bei tempi!... Le draghinasse non avevano il tempo di arrugginirsi.

«Chissà che non ritornino.»

Un quarto d’ora dopo, Panchita, tutta inzuppata d’acqua, era di ritorno, accompagnata da un bell’uomo sui trent’anni, bruno come un indiano, con due baffoni neri che gli davano un aspetto marziale. Don Barrejo non aveva esagerato quando aveva detto a Panchita che il di lei fratello era grosso e forte come un toro, poiché infatti il nuovo venuto doveva possedere certi muscoli, da rompere a pugni le costole anche ad un bue.

— Hai condotto il carretto, Rios? — gli chiese don Barrejo.

— Sì, cognato, — rispose il bell’uomo.

— Sai che cosa dobbiamo fare?

— Mia sorella mi ha spiegato ogni cosa.

— Hai portato con te almeno una spada? L’avventura potrebbe finire maluccio.

— Tu sai che io maneggio meglio il randello e me ne sono portato uno di quei solidissimi.

— Allora sbrighiamoci: Panchita, fa’ lume.

I due uomini scesero nella cantina, alzarono non senza fatica la grossa botte e la trasportarono, dopo un lavoro laborioso, su un carretto che stava fermo dinanzi la porta della taverna, collocandovela diritta per non disturbare il sonno del fiammingo.

— Chiudi subito e non aprire a nessuno, — disse don Barrejo a Panchita.

— E tu, quando tornerai? In quale avventura t’imbarchi, Pepito mio? Eravamo cosí tranquilli prima!...

— Quando si tratta d’un tesoro come quello del Gran Cacico del Darien, non vi è da esitare a mettervi le mani sopra, moglie mia, — rispose il guascone. — E poi ho nelle vene il sangue di centomila avventurieri e cominciavo ad invecchiare troppo presto nella mia taverna.

«Ti rimanderò Rios, il quale ti terrà compagnia durante la mia assenza.»

L’abbracciò, poi si mise dietro al carretto, mentre il robusto castigliano tirava piú forte d’un mulo.

La notte non era migliore della precedente. Il vento soffiava con mille ululati attraverso le vie oscure, strappando le larghe foglie delle splendide palme e devastando i giardini, e la pioggia non cessava un solo istante di cadere.

Il fratello di Panchita e don Barrejo, l’uno tirando e l’altro spingendo, erano giunti all’estremità della via, quando s’incontrarono in tre individui, i quali si divertivano a prendersi l’acquazzone, chiacchierando tranquillamente.

— Ohé, dove si va a quest’ora con quel po’ po’ di vino? — gridò uno dei tre, avanzandosi verso il carretto.

— Al porto, — rispose asciuttamente don Barrejo.

— Si potrebbe assaggiarlo, prima che se lo bevano tutto i peruviani od i cileni?

— È merce sigillata, — ripose il guascone, continuando a spingere.

Carrai!... — esclamò un altro. — Si fa un buco nel ventre della botte e si succhia. Credi che noi non abbiamo abbastanza piastre per pagarti?

— Io non sono il padrone.

— Cerchi d’ingannarci, poiché abbiamo riconosciuto benissimo in te il proprietario della taverna degli spettri.

— Insomma, che volete? — chiese il guascone, cui il sangue cominciava a muoversi piú rapido.

— Bere, por dios!... — risposero i tre sconosciuti, mettendosi dinanzi a Rios per impedirgli di proseguire.

— Che cosa bere?

— Quello che sta lí dentro, caramba, — rispose una dei tre.

— Se vuoi, alzo il coperchio e ti lancio fra le gambe la bestia che vi è dentro. Vorrei vederti allora, bravaccio, che corsa prenderesti.

«Non sai che lí dentro vi è un giaguaro?»

— Ah!... Baie!... — esclamarono i tre uomini.

— Accostate dunque i vostri orecchi d’asino alla botte ed ascoltate, — disse don Barrejo.

Il fiammingo russava, in quel momento, in modo tale da far tremare perfino le doghe dell’enorme recipiente.

I tre sconosciuti, niente affatto persuasi di quanto aveva detto il padrone della taverna d’El Moro, s’accostarono al carretto ed allungarono le teste verso la botte.

Udendo quel brontolio rauco, balzarono indietro spaventati.

Carrai!... — gridò uno. — Il padrone porta via gli spettri che infestano la sua cantina!... Gambe, amici!...

— E subito, o lancio il giaguaro, — gridò don Barrejo. — Vale meglio di tutti i satanelli dell’inferno.

I tre uomini si erano slanciati ad una corsa disperata, scomparendo ben presto fra le tenebre.

— Anche gli ubbriachi qualche volta servono a qualche cosa, è vero Rios? — disse il guascone.

— Se non la finivano però li randellavo per bene, — rispose il castigliano, riprendendo la marcia.

— Sai dove si trova la posada del Rio Verde?

— Sí, cognato.

— È là che dobbiamo fermarci per ora.

Dopo venti minuti giungevano, sempre sotto una pioggia dirotta che li bagnava fino alle ossa, dinanzi alla posada del Rio Verde.

Come don Barrejo si era immaginato, erano attesi da Mendoza, Buttafuoco e da Wandoe, i quali stavano chiacchierando sotto il piccolo patio.

Scambiarono appena poche parole, poi il bucaniere e il filibustiere portarono fuori un uomo che pareva non desse piú segno di vita.

— È quello che deve tenere compagnia al Pfiffero? — chiese il guascone, il quale si era affrettato a levare il coperchio alla botte.

— Sí, — rispose il basco.

— Mi sembra morto.

— Lo abbiamo fatto bere perché non gridi.

— Un sistema pericoloso che non consiglierei mai per un uomo ferito.

— Se anche muore, ci rimarrà sempre compare Arnoldo.

Alzarono il preteso figlio del grande di Spagna, lo calarono, colle dovute precauzioni, dentro la botte, stendendolo accanto al fiammingo.

— Al porto ed in fretta, — disse Buttafuoco. — Noi scorteremo il carretto e Wandoe ci guiderà.

— Che bella notte per far viaggiare le botti, — disse don Barrejo, ridendo. — Vorrei essere dentro anch’io col Pfiffero, almeno sarei al coperto.

Sempre sotto la pioggia torrenziale, il carretto si mise quasi in corsa, perché spingeva anche Mendoza, mentre Wandoe segnava la via e Buttafuoco stava alla retroguardia.

Le vie erano deserte ed oscure. Nemmeno le ronde si lasciavano vedere, preferendo certamente qualche vecchio porticato dove potevano almeno ripararsi da quel furioso ed ostinato acquazzone.

L’oceano Pacifico muggiva sempre rabbiosamente, con un crescendo talvolta spaventoso.

Già i cinque uomini cominciavano a scorgere i fanali delle navi ancorate nel porto, oscillanti sotto il battere e ribattere delle onde, e Wandoe aveva già annunciato che stavano per giungere alla casa affittata, quando udirono il rumore di persone lanciate a corsa disperata, che cercavano di raggiungerli.

— Ferma, Rios!... — gridò don Barrejo, levando la draghinassa.

Il robusto castigliano arrestò il carretto e s’armò d’uno di quei nodosi bastoni che usano i contadini della Manica e che valgono talvolta meglio delle spade e delle draghinasse.

— Siamo lontani dalla casa? — chiese Buttafuoco a Wandoe.

— Appena duecento passi, ma sarà meglio che quegli individui che ci danno la caccia non ci vedano entrare. Possono essere anche quelli agenti del marchese che ci hanno seguiti.

Tonnerre!... Allora picchierò sodo, — disse don Barrejo. — È un po’ che ho una voglia pazza di sfogarmi su quei mascalzoni.

— Ed io non meno di te, compare, — aggiunse Mendoza. — Questa botte non doveva giungere a posto senza qualche cattivo incontro.

«Diamine!... È visibile come un faro!...»

Otto o dieci uomini, coperti di ampi mantelli e cappellacci, si erano, dopo una lunga ed affannosa corsa, avvicinati al carro rimasto immobile in mezzo alla via sotto quel diluvio d’acqua.

— Chi siete e che cosa volete? — chiese Mendoza, avanzandosi verso di loro colla spada in mano.

— Sapere a chi avete rubata quella magnifica botte, — disse uno di quegli sconosciuti.

— Marrano!... Ci prendi per dei ladri!...

— Non si porta via del vino a quest’ora e sotto questa pioggia.

— Che cosa vuoi concludere?

— Che noi abbiamo sete e che vi proponiamo di dare l’assaggio al contenuto.

— Sí, abbiamo sete!... — gridarono tutti gli altri, sbarazzandosi dei mantelli per mostrare che erano armati.

— Ehi, tu che vuoi assaggiare di questo vinello, — disse il guascone rivolgendosi al capo-banda, — vieni a udire qui come borbotta. Poi mi dirai se sarà bevibile.

— Se borbotta sarà vino nuovo e a noi piace molto perché è piú dolce, — rispose lo sconosciuto, avanzandosi verso il carretto ed appoggiando un orecchio alla botte, mentre i suoi compagni ridevano a crepapelle.

— Odi? — chiese il guascone.

Carrai!... Tu mi burli!... Si direbbe che lí dentro vi sono delle bestie feroci che ringhiano.

— T’inganni, amico: vi sono degli spettri che abbiamo presi in una cantina d’una famosa taverna e che andiamo a gettare in mare.

Un grande scoppio di risa accolse quelle parole.

— Camerati!... — gridò il capo-banda. — Avete paura voi degli spiriti?

— No!... No!... — risposero gli altri ad una voce.

— Fuori le spade e diamo battaglia a quei figli di Satana. Almeno vedremo come sono fatti. Rovesciate la botte!...

— Quale? — chiese Mendoza, avanzandosi a sua volta, seguito da Buttafuoco e da Wandoe.

— Quella che sta sul tuo carretto.

— Lo scherzo è finito, mio caro, e ora si lavora a colpi di spada, se ci secchi ancora.

— Oh!... Il buffone che...

Una terribile piattonata attraverso le labbra gli ruppe la frase e qualche dente insieme.

— A te, canaglia!... — aveva gridato Mendoza.

I compagni del colpito, i quali parevano molto allegri, avevano estratte le spade e si erano gettati confusamente contro i quattro uomini, i quali li aspettavano a piè fermo, appoggiati al carretto. Rios aspettava il momento opportuno per far suonare il suo terribile bastone murcese sulle spalle degli assalitori, i quali vociavano in coro:

— Prendiamo d’assalto le botte!...

Abituati però piú a vuotare boccali di vino che a maneggiare le spade, fino dal primo attacco si trovarono a mal partito. Ci voleva ben altro per tenere testa al guascone, a Mendoza ed al gentiluomo francese diventato bucaniere.

Fra un grandinare di colpi si udirono due o tre grida di dolore, poi due uomini abbandonarono precipitosamente il campo di battaglia, lasciando a terra mantelli e cappelli, segno evidente che se l’erano già prese.

Gli altri però, incolleriti di essere tenuti in iscacco da quei quattro uomini che credevano dei semplici tavernieri, stavano per ritornare all’attacco, quando il forte castigliano entrò in linea.

La faccenda fu breve. Gli aggressori, martellati sonoramente dal randello murcese, dopo una breve resistenza scapparono a gambe levate, lasciando sul terreno perfino delle spade spezzate.

Mentre l’ercole castigliano, aiutato da Buttafuoco, li inseguiva per qualche tratto per impedire un ritorno offensivo, don Barrejo, Mendoza e Wandoe spingevano il carretto a tutta corsa verso il porto, mettendolo al sicuro sotto un oscuro porticato che riparava una modesta casetta da pescatori, situata di fronte ad una delle calate.