I Marmi/Parte prima/Ragionamento quinto/Risoluto e l'Etrusco, uno chiamato veramente Fortunato
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Risoluto e l’Etrusco
uno chiamato veramente Fortunato Martinengo
e l’altro Alfonso de’ Pazzi.
Alfonso. Ben venga il signor conte Fortunato: egli è tanto che la signoria vostra illustre è in questa cittá e io non v’ho ancóra potuto godere, ben che pure eri venni di villa, dove sono stato piú giorni; pur ci venisti a vedere, tante volte ce l’avete con lettere promesso!
Conte. Per mia fede, che cento e mille volte ho dimandato della nobiltá vostra: oh che piacere ho io avuto infinito delle vostre nuove e acute composizioni! In fine, voi altri signor fiorentini avete tutti spirito, siate inventori di belle cose e acutissimi d’intelletto.
Alfonso. L’affezion v’inganna, signor conte; ma lasciamo queste cose: chi era quel forestiero con chi parlava la signoria vostra?
Conte. A dirvi il vero, egli è un meccanico ignorante che fa il dotto e il signore; e l’ho conosciuto a’ contrasegni che ne dá il Doni in una sua opera chiamata Giornale, che te lo insala bravamente. Oh lo tratta male! Egli ha trovato la sua genealogia di cent’anni; sa tutte le truffe che egli ha fatto e le cagioni perché va d’una in altra terra, perché ha scopato le prigioni di Roma e altri sviamenti di donne con truffarle di robe, di danari e d’altre cose.
Alfonso. Come ha egli nome?
Conte. Non me ne ricordo.
Alfonso. Egli è arrivato dove si vende il pane a buon mercato! egli sta fresco! non debbe sapere che il minimo di noi in due ore lo squadrerá da capo a piedi!
Conte. Madesí! e’ si tiene tristo cattivo della cappellina, e gli pare essere, ed è forse, forchebene. Basta che io l’ho conosciuto. Or ditemi: come vi tratta il vostro signore, principe mirabile?
Alfonso. Divinamente: egli è uno de’ mirabilissimi uomini che sieno al mondo; egli ci dá la libertá, egli ci lascia godere il nostro, ce lo conserva, ce lo aumenta; fa che per l’esempio suo conosciamo la virtú, perché la sua eccellenza ama i virtuosi sopra tutte le cose; lui premia la virtú, riprende i mal costumati e gastiga gli ostinati nel mal fare; vedeci tutti con occhio netto d’odio o d’ambizione, anzi ci tien tutti tutti, dal minimo al maggiore, per frategli e amaci da figliuoli; dalla sua illustrissima persona non s’impara se non ottimi amaestramenti e santi costumi.
Conte. Oh che giovane prudente! La fama sua insino a ora è corrispondente ai fatti.
Alfonso. La pace sopra tutte le cose è il suo specchio; brevemente, la nostra cittá è un cielo pieno di angeli: qua s’attende alle lettere grece, latine, e volgari, come dovete sapere, all’arte per il vivere, e non vivere oziosi; questa nostra academia è poi il nostro ornamento; e tutta la gioventú s’esercita in virtuose opere.
Conte. Viver possi egli eternamente, e Dio ve lo conservi in prosperitá e felicitá.
Alfonso. Che vi par della stampa rara che egli ha fatta venire? l’arte de’ panni di Razzo? dove sono premiati i litterati cosí bene? dove possono vivere i virtuosi meglio? Qua ci sono scultori da sua eccellenza accarezzati e strapagati, per parlare naturalmente, qua pittori in supremo grado, qui architetti; in sino al mirabilissimo istoriografo del Gioio si riposa sotto sí felice pianta. Egli non guarda ad alcuna spesa a mantener lo studio pisano e ha lettori rari, perché sua eccellenza gli remunera oltre all’ordinario sempre; tiene poi ministri sopra lo studio e che maneggiano il governo, eccellentissimi e senza menda. Veggasi la bontá, realitá e caritá del gran Lelio Torello, e basta; cosí sequentemente tutti i membri, che non ne falla uno, sono imitatori della bontá del lor capo. E la povertá dalla sua pietá è sempre sostenuta e allevata; amator della religione ed è defensore della chiesa, poi, supremo; gastiga i ribelli di Giesú Cristo con la verga e con il mèle gli unge, perché il vero padre de’ cristiani fa cosí; metter mano alla spada e, per insino che si fa il reo pentire e doler del fallo, s’abbassa il taglio, ma, come il malfattore è ritornato nella via della veritá e del giusto, se gli porge la mano e si sollieva.
Conte. Certo che Cosmo è un mondo pieno di fede, di caritá e d’amore: non mi dite altro, ché io vi giuro che l’allegrezza che io ne ho è infinita, perché veggio gli effetti delle vostre parole e mi chiarisco di tutto quello che la fama spande della sua illustrissima eccellenza.
Alfonso. Voi, in quella patria, specchio d’Italia e splendor del mondo, di Vinegia, come la fate?
Conte. Divinamente: quella è una stanza da spiriti celesti; in tutto il mondo non si ritroverebbe i piú mirabil gentiluomini; io credo certo che gli angeli fabricassero quel sito per salute de’ buoni. Lá vi sono, in una republica, tanti re, e ciascuno ama la sua patria di cuore, la serve, la conserva e la custodisce come la propria anima. Noi Martinenghi ci semo stati tutti, un tempo, e ben veduti e accarezzati mirabilmente. Abbiamo avuto servitú, per non dire amicizia, ancóra che quei signori sono la benignitá del cielo, con molti di quei magnifici illustrissimi: particularmente il clarissimo messer Niccolò Tieppolo, dottore litteratissimo e raro, il quale ha un figliuolo piú amatore della virtú, e premiatore di quella, che sia stato molti anni sono; il clarissimo messer Domenico Morisini si può mettere in ogni paragone di uomo divino. Sapete, messer Alfonso, come averrebbe a me, s’io volesse contarvi i signori illustrissimi viniziani, dotti eccellenti e stupendi? Come a colui che volesse numerar le stelle del cielo. Io particolarmente ho tre padroni amici unichi: il magnificò messer Pier Giorgi, messer Niccolò Salamoni e messer Luca di Mezzo, ai quali sono schiavo e servitor per lor merito.
Alfonso. Per dio, che qua c’è fama di parecchie decine! Un clarissimo messer Pier Francesco Contarini, litteratissimo e perito in molte lingue; messer Federigo Badoero, magnifico; un messer Gieronimo Molino, mirabile; il divino spirito d’un messer Domenico Veniero c’è comendato assai.
Conte. Il fratello messer Francesco ancóra, e gli altri sono rari, e mai praticasti i piú onorati e amorevoli gentiluomini. Il Barbaro? Non è sí gran titolo che non gli stesse bene. La cittá poi è piena di signori litterati e spiriti dottissimi: lo illustre signor Ercole Bentivogli, la fama del quale è notissima, ed è del numero dei re della republica, il Fortunio, il Dolce, il Daniello, il Cocchio1, il Sansovino, il celeste Tiziano, l’Aretino, Enea2, il Salviati, il Tintoretto, il Marcolino, il Nardi vostro, gentiluomo perfetto, e infiniti mirabili intelletti peregrini, vivono in buono stato; due giovani magnifici e rari vi sono della casa Cornara, messer Francesco e messer Giovan Paolo, tutti datisi in preda alla virtú, agli studi primamente della filosofia e delle buone lettere, poi alla musica e ogni altro virtuoso esercizio da gentiluomini onorati. Gentildonne ve n’è senza numero, che sono la luce della virtú.
Alfonso. L’ora è tarda: vostra signoria riserbi a un’altra sera l’altre cose infinite da dire; e se desiderate farmi un favore miracoloso, venite meco a goder il mio palazzo stasera e quanto voi starete in questa cittá, se ben gli stessi in vita e in morte.
Conte. Io non posso, perché non son mio; io son di messer Luca Martini.
Alfonso. Voi siate con un giovane virtuoso e de’ begli ingegni d’Italia: andate con la buona notte e fatemegli raccomandato.
Conte. Baciovi la mano.
- ↑ Pompeo Cocchi di Piergentile, da Cordano presso Perugia, scolaro del Perugino. Vedi Della vita e delle opere di Pietro Vannucci, commentario istorico del prof. Antonio Mezzanotte, Perugia, Baduel-Bartelli, 1836, pp. 238-240 [Ed.].
- ↑ Enea Vico da Parma, lodato eccellente incisore dal Vasari nella vita di Marcantonio Bolognese. Il Doni, nelle Lettere, 1552, n’ha una a Enea da Parma, ove commendalo intagliatore abilissimo pur delle sue proprie Medaglie e registralo poi nella seconda Libraria sotto il nome di Enea Parmigianino [Ed.].