I minatori dell'Alaska/XXI - Le Montagne Rocciose

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XXI — Le Montagne Rocciose

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XX — L'assalto dell'orso grigio XXII — La caccia ai «mangiatori di legno»

XXI — LE MONTAGNE ROCCIOSE


Bennie e Armando, dopo aver ricaricato le armi, s'erano accostati alla fiera gigante, osservandola con un misto di curiosità e di terrore. Anche morto, quell'animalaccio faceva paura con il pelo arruffato, la bocca enorme armata di lunghi denti gialli, e le unghie a prova di ferro.

— Che bestione!... — esclamò Armando. — Mi sembra quasi impossibile che noi siamo riusciti ad abbatterlo.

— Una vera fortuna, ve lo dico io, Armando.

— Siete ferito?...

— No, giovanotto. Però se nel momento in cui allungava la zampa era un po' più vicino, invece di afferrarmi per la cinghia, mi apriva la testa.

— Avete avuto dell'audacia, Bennie.

— Sfido io, si trattava di salvare la pelle!...

— E l'uomo che ha sparato quei due colpi di fucile, dove sarà andato?

— Quei due colpi di pistola, volete dire.

— Mi parevano di fucile.

— V'ingannate, Armando.

— Sia pure, ma quell'uomo?

— Avrà avuto paura e sarà fuggito, — disse il canadese, alzando le spalle.

— O che sia stato ucciso dal grizzly?

— Vi assicuro che è più vivo di prima.

— L'orso non avrebbe lasciata la preda così presto, Armando. Tuttavia andiamo a cercarlo.

Si diresse verso la roccia sulla quale avevano veduto il grizzly e frugarono le macchie di cespugli che la circondavano, senza trovare nulla. Osservando più sopra, là dove la rupe si appoggiava alla parete rocciosa della gola, scopersero dei cespugli in parte strappati, e più in alto delle radici spezzate che lasciavano ancora colare la linfa.

— L'uomo è fuggito scalando la parete — disse Bennie. — Corna di bisonte!... Doveva avere dei muscoli d'acciaio, e possedere una agilità da far invidia alle scimmie. Un cacciatore bianco non sarebbe riuscito in un'impresa simile.

— Che quell'uomo fosse un indiano? — chiese Armando.

— Lo suppongo, — rispose il canadese.

— Lo cercheremo?

— A quale scopo?... Siamo in una regione dove l'incontro di un uomo è più pericoloso che utile. Lasciamo che quel pellerossa corra e andiamo a tagliare uno zampone all'orso.

— Si dice che sia eccellente la carne del grizzly; è vero, Bennie?

— Non ha nulla da invidiare a quella dei maiali, ve l'assicuro. Accidenti!... Lingua di cervo e prosciutto d'orso!... Back e anche vostro zio faranno onore alla colazione o alla cena, se giungeremo in tempo all'accampamento.

Il canadese afferrò il bowie-knife e lavorando con gran lena, dopo non poca fatica, riuscì a staccare una delle zampe posteriori del grizzly.

— Andiamo, — disse, curvandosi sotto quel peso non lieve. — Se i miei calcoli non errano, non dobbiamo trovarci lontani.

Salirono l'ultimo tratto di gola e poco dopo sbucarono su un vasto altipiano, in parte fiancheggiato da alti picchi scoscesi. Verso est, la pianura scendeva dolcemente, coperta da foreste di pini, abeti e frassini bianchi e neri. Guardando verso il piano, Bennie e Armando scopersero un punto luminoso, che brillava fra due giganteschi pini.

— Ecco l'accampamento, — disse Bennie. — Fra un'ora lo raggiungeremo.

Alzò il fucile e lo scaricò, poi, a intervalli d'un minuto, fece due altre scariche. Poco dopo una lontana detonazione rimbombava sulla pianura.

— È Back che risponde, — disse Bennie. — Ormai sa che siamo salvi, e non corriamo alcun pericolo. Scendiamo, Armando.

Abbandonarono l'altipiano e si avventurarono sotto i boschi procedendo con precauzione per non fare qualche altro brutto incontro. Quei declivi delle Montagne Rocciose parevano assolutamente ancora vergini. Abeti, cedri colossali e olmi enormi, si slanciavano in alto come i pilastri di una cattedrale immensa. In mezzo a quei colossi che si ergevano superbamente, sfidando i secoli, altri erano caduti o per decrepitezza o abbattuti dal fulmine, schiacciando sotto l'immane peso dei loro tronchi mostruosi, un infinito numero di piante minori. Oltre a quei giganti, cespugli e giovani alberi crescevano confusamente formando una seconda foresta, infinitamente più intricata, che ostacolava la marcia. Bennie e Armando, scostando e tagliando i rami avanzavano penosamente, cercando di mantenersi sulla buona strada, essendo cosa facilissima smarrirsi nelle foreste vergini. Fortunatamente non avevano che da seguire il pendio per essere certi di giungere, presto o tardi, nella vallata sottostante. Finalmente verso mezzanotte attraversavano l'ultimo lembo della foresta e scendevano nella valle, guidati dal fuoco che ardeva nell'accampamento. Back si era già mosso per andare loro incontro.

Caramba!.. — esclamò. — Che cosa vi è dunque accaduto per tornare a quest'ora?

— Delle avventure che vi faranno drizzare i capelli — rispose Bennie. — Avete già cenato?

— Da tre ore.

— Allora serberemo lo zampone d'orso per domani.

Il signor Falcone, in preda a viva inquietudine, li aspettava. Subito volle essere informato delle avventure toccate ai due cacciatori.

— Non dovevate allontanarvi troppo, — disse, quando Bennie ebbe terminato il racconto.

— Bah!... — rispose il canadese. — Io e vostro nipote possiamo ormai affrontare tutti gli orsi grigi delle Montagne Rocciose. Signor Falcone, potete andare superbo di Armando!

Dieci minuti dopo, il bravo canadese e Armando dormivano placidamente, sotto la guardia di Back che si era incaricato di fare anche il loro quarto. All'indomani, appena spuntato il sole, Bennie offriva ai compagni lo zampone del grizzly, arrostito a perfezione, che fu trovato da tutti squisito, forse migliore del prosciutto di maiale. Durante quella seconda giornata, il signor Falcone e i suoi compagni non abbandonarono l'accampamento, avendo già viveri per parecchi giorni: occuparono il tempo a rassettarsi i vestiti, che ne avevano proprio bisogno, e a mettere un po' in ordine le casse che minacciavano di sfasciarsi. Il terzo giorno, dopo una abbondante colazione di zampone e di lingua di cervo, si mettevano in viaggio, ansiosi di giungere al confine dei possedimenti inglesi e di porre piede nel territorio dell'antica colonia russa, nel paese che nascondeva tante ricchezze. Volendo evitare le salite difficili per non stremare i cavalli, cercarono dapprima di tenersi un po' lontani dalla grande catena delle Montagne Rocciose, riservandosi più tardi di attraversarla all'altezza del Dease, corso d'acqua che come il Back va a scaricarsi nel Liard, uno degli affluenti del Makenzie. Per tre giorni, infatti, poterono trovare dei passaggi attraverso i contrafforti della catena, riuscendo a percorrere felicemente oltre centoventi miglia, però al quarto furono costretti ad addentrarsi in mezzo a quelle gigantesche muraglie granitiche, per poter raggiungere la regione dei Laghi, dove speravano di trovare un terreno meno accidentato. La temperatura era fredda. Sulle cime dei monti la neve era alta ancora, e da quelle sommità scendevano folate di vento rigidissimo, misto a nevischio. I poveri animali, non ancora abituati a quel clima, soffrivano molto e anche Back cominciava a trovarsi a disagio, non essendosi mai spinto tanto verso nord. Il signor Falcone e Armando trovavano invece quel clima naturalissimo; Bennie poi, da buon canadese, se ne infischiava e asseriva che quell'aria frizzante gli stuzzicava straordinariamente l'appetito. La marcia difficilissima e penosa, durava già da quarant'otto ore, quando una nevicata abbondante e improvvisa, accompagnata da raffiche impetuose, li costrinse a mettersi in cerca di un rifugio per non correre il pericolo di perdere gli animali. Dopo lunghe ricerche, Bennie e Back riuscirono a scoprire l'entrata di una caverna, la quale era tanto vasta da contenere comodamente uomini ed animali. Prima di entrare armarono i fucili, temendo che quell'antro servisse di rifugio a qualche grizzly, poi avanzarono con precauzione, tenendo in mano alcuni rami di pino accesi. La caverna era assai vasta e alta parecchi metri e all'estremità confinava con una specie di corridoio, dentro cui la temperatura si manteneva molto bassa, una vera ghiacciaia. Bennie, volendo accertarsi che non vi si nascondesse qualche animale pericoloso, volle entrare insieme con Armando, il suo compagno inseparabile. Erano giunti quasi all'estremità quando alla fumosa luce delle torce videro, sparsi al suolo, degli ossami che però non sembravano appartenere ad alcuna bestia. Un teschio, quasi rotondo, simile ad un cranio umano, e che portava le tracce d'una profonda ferita, li colpì.

— Corna di bisonte!... —esclamò il canadese, che era diventato pallido. — Che cos'è questo?

— Si direbbe un cranio umano — disse Armando.

— E quelle ossa sono delle costole e delle tibie che devono aver appartenuto a un uomo, — aggiunse Bennie. — Qui è stato ucciso e divorato qualcuno!...

Il signor Falcone, a quelle esclamazioni, si era affrettato a raggiungerli.

— Degli avanzi umani!... — disse, con stupore. — Che cosa è accaduto qui?

S'impadronì del cranio e lo osservò attentamente per parecchi minuti, manifestando un profondo ribrezzo.

— Si tratta di un assassinio — disse. — Questa spaventosa ferita che ha fracassato l'osso frontale, è stata prodotta da un poderoso colpo di scure. Ecco qua una scheggia di acciaio ancora infissa.

— Per centomila bufali!... — brontolò Bennie. — Che in questa caverna si sia rifugiato qualcuno di quegli immondi antropofaghi?

— Di quali antropofaghi intendete parlare, Bennie?... — chiese il signor Falcone, guardandolo con sorpresa. — Qui non siamo sulle isole dell'Oceano Pacifico.

— E che cosa volete dire, signore? — chiese il canadese.

— Che nell'America del nord l'antropofagia dovrebbe essere sconosciuta.

— Ah?... Lo credete, signor Falcone!... Voi dunque non avete mai udito parlare dei mangiatori di carne umana delle Montagne Rocciose?

— No, davvero, e non crederei...

— Accendiamo il fuoco, e poi vi racconterò delle storie che vi faranno venire la pelle d'oca, e storie autentiche, ve lo assicuro.

Ritornarono, nella prima caverna, dove Back aveva già portato alcuni fastelli di legna resinosa e secca, raccolti nella vicina pineta, accesero un allegro fuoco e misero a bollire la pentola, gettandovi dentro un bel pezzo di carne di bisonte secca e alcune manate di fagioli. Back, intanto, aveva impastate delle focacce per friggerle nel grasso. Mentre la colazione si cucinava, Bennie, rivoltosi verso il signor Falcone, gli disse:

— A voi sembreranno forse storie inverosimili, eppure vi assicuro che l'antropofagia non è una cosa tanto rara in queste regioni. Aggiungerò, anzi, che ho conosciuto alcune persone note per la loro passione per la carne umana, e che ne ho vedute alcune impiccate.

— Voi mi stupite, Bennie.

— Vi credo, eppure sono storie vere e sembra che gli individui che hanno cominciato a gustare la carne umana, non rinuncino facilmente alle loro abitudini. Fra le tribù indiane, specialmente fra i Denè che abitano in queste regioni, e anche i Crès, i casi di antropofagia non sono rari. Ho conosciuto due donne, l'una appartiene alla tribù del lago Grenoville e l'altra a quella del lago Poul d'Eau, che erano diventate antropofaghe.

— È incredibile, Bennie.

— Oh!... Ma questo è nulla, — continuò Bennie. — Ho visto giustiziare un indiano che aveva uccisi e divorati, uno dopo l'altro, sua moglie e i suoi figli.

— Bennie, che cosa narrate?

— Delle cose vere, signore. Era il 1879 e io mi trovavo allora tra i cacciatori del Forte Saskatchewan, quando fu condotto un indiano chiamato Kahusi-Kutsciu, arrestato sotto l'imputazione di antropofagia. Quel miserabile, messo alle strette, confessò al capitano Gagnor, comandante del forte, in presenza mia; e di altri sette cacciatori, di aver divorato la moglie e i figli. Quell'indiano aveva lasciato i dintorni del forte sette mesi prima per recarsi a caccia. Era accompagnato dalla moglie, da sei figli, tre femmine e tre maschi, e dal cognato. Caduto ammalato sulle rive dell'Athabasca, non aveva potuto approfittare del passaggio della selvaggina, sicché ai primi freddi si erano trovati senza i viveri. Quei disgraziati, dapprima divorarono tutti i loro indumenti di pelle, le corregge, i legacci delle stuoie e perfino le suole delle scarpe, poi la moglie lo lasciò assieme al cognato per andare in cerca di viveri. Quando Kahusi-Kutsciu si trovò solo coi figli, fu assalito da una idea infernale: cibarsi di quelle carni, sangue del suo sangue. Un mattino, pazzo per la fame, con un colpo di fucile sparato a tradimento, assassinava il figlio maggiore, e siccome questi respirava ancora, lo finiva a coltellate e a bastonate. L'infelice ragazzo fu fatto a pezzi, messo a bollire e mangiato in pochi giorni.

— Miserabile! — esclamò Armando.

— La fame non ragiona, amico — disse Bennie.

— Continuate, — disse il signor Falcone.

— Alcuni giorni dopo, l'indiano incontrava la moglie e il fratello. Quei miseri indovinarono subito ciò che era accaduto, e temendo per la propria vita, pensarono di abbandonare quel mostro. Kahusi-Katsciu se ne accorse e per impedire loro di denunciarlo, il mattino dopo, pazzo di furore, con una fucilata a bruciapelo assassinava la moglie, con tre colpi di scure uccideva due figlie e un figlio, e con le mani strozzava la bambina lattante. Suo fratello, spaventato, era riuscito a fuggire, ma con l'antropofago era rimasto l'ultimo figlio, un ragazzetto di sette anni. Kahusi-Katsciu trascorse l'intero inverno cibandosi della loro carne, poi alla primavera abbandonò l'accampamento, e fuggì sulle rive del lago delle Uova. Fu là che uccise anche l'ultimo figlio, fracassandogli la nuca a tradimento, e lo divorò quantunque non fosse più a corto di viveri, avendo già abbattuta non poca selvaggina. Qualche mese dopo, quel miserabile, denunciato da suo fratello veniva preso e impiccato nel forte di Saskatchewan.

— E voi mi assicurate che simili delitti sono tutt'altro che rari fra gli indiani Denè? — chiese il signor Falcone.

— Oh!... Non parlo soltanto degli indiani, — disse Bennie. — Qui, fra queste montagne, si ricordano ancora certamente i nomi di Palker e Wilson Bell, due cercatori d'oro diventati antropofaghi.

— Ed erano bianchi?

— Yankees, signor Falcone.

— Chi ve l'ha detto?

— È una storia conosciuta da tutti i cacciatori delle praterie, e aggiungerò che io avevo lavorato assieme a uno dei loro compagni nelle miniere del Colorado. Il fatto risale al 1874, ma Palker non fu condannato che nel 1886, dieci anni or sono, e credo che viva ancora. Quei due sciagurati si erano uniti ad altri tre minatori per andare a cercare l'oro fra le Montagne Rocciose. Perdutisi in mezzo al caos dei picchi nevosi, e ridotti senza più un pezzo di pane, si erano rifugiati in una caverna, attendendo la morte. Palker, più forte di tutti, prima di rassegnarsi a morire, era uscito con la speranza di trovare della selvaggina. Tornato due giorni dopo, aveva trovato Bell occupato a cucinare della carne. Accortosi della presenza del compagno, senza pronunciare una parola, Bell s'era scagliato contro di lui armato di scure. Palker, quantunque sorpreso, aveva avuto la presenza di spirito di evitare il colpo micidiale e di armare il fucile che portava sulle spalle. Credendo che Bell fosse impazzito e ritentasse l'attacco, fece fuoco, abbattendolo. Soltanto allora potè indovinare l'atroce dramma svoltosi nella caverna durante la sua assenza. Bell, roso dalla fame, aveva assassinati i suoi tre compagni e aveva messo a bollire alcuni pezzi delle loro carni. Inorridito, il minatore dapprima fuggì, però la fame ben presto lo ricondusse nella caverna e, orribile a dirsi, divorò la carne umana che bolliva nella pentola. Ebbene, lo credereste... Quel miserabile trascorse l'intero inverno cibandosi degli avanzi dei suoi quattro compagni!... Giunta la primavera, abbandonò le montagne senza neppur seppellire gli scheletri, e scese nella pianura. Scoperti gli avanzi umani, e la pentola, nella quale erano state trovate ancora le ossa di una mano, alcuni cacciatori inseguirono l'antropofago e lo catturarono. Condotto nella caverna, Palker riuscì a fuggire e per dieci anni più nulla si seppe di lui. Arrestato nel 1886 a Pueblo, fu condotto a Gunnisson, e condannato, il 5 agosto, a quarant'anni di prigionia.

— Signori! — concluse Bennie.

— Lasciamo gli antropofaghi e divoriamo la colazione. Vi assicuro che nella nostra pentola non ha mai bollito carne umana.