Il figlio del Corsaro Rosso/Parte II/Capitolo XII - Un'altra trovata del guascone

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Parte II - Capitolo XII - Un'altra trovata del guascone
Parte II - Capitolo XI - L’agguato d’«El Valiente» Parte II - Capitolo XIII - La caccia al conte di Ventimiglia

Capitolo XII
Un’altra trovata del guascone.


I due drappelli, mandati certamente da don Juan de Sasebo per catturare anche i tre spadaccini del conte, si erano accostati di parecchie centinaia di passi, pur cercando di tenersi sempre nascosti dietro alle dune di sabbia.

Dovevano essere stati probabilmente avvertiti che gli uomini che volevano arrestare erano vecchie pelli, capaci di giuocare dei pessimi tiri e anche di dar da fare ad una cinquantina di alabardieri.

Il guascone li spiava attentamente, pur fingendo d’osservare l’Oceano e di quando in quando alzava lievemente il capo per dire a Mendoza, il quale si trovava nascosto dietro alla lanterna sempre accesa:

— Vengono: non sono che a trecento passi... a duecentocinquanta... stanno per incontrarsi.

Come abbiamo detto, i due drappelli procedevano in senso contrario, per prendere in mezzo gli avventurieri ed impedire loro la fuga.

S’avanzavano però con grandi cautele, cogli archibugieri in testa e gli alabardieri in coda.

Le due piccole colonne non tardarono ad unirsi ed una viva discussione parve impegnarsi fra i due comandanti, poiché il guascone che aveva l’udito finissimo udí non poche imprecazioni.

— Mendoza, — disse.

— Che cosa desiderate?

— Accendetemi una torcia. Desidero che quella gente veda bene che io sono un fanalista.

— E se qualcuno conoscesse il vecchio che abbiamo legato ed abbiamo imbavagliato.

— Ah!... Bah!... Accendete e non occupatevi d’altro per ora.

Risalí lentamente la gradinata, sempre colla pipa in bocca, e rientrò sotto la cupola, fingendo di occuparsi della lanterna.

I soldati intanto avevano formato un vasto semi-cerchio, alternando su una sola fila archibugieri ed alabardieri e s’avanzavano verso la spiaggia, colla speranza di trovare i tre avventurieri occupati ad allestire la scialuppa.

Delle grida di rabbia avvertirono il guascone che erano già giunti sulla spiaggia.

— Devono essere furibondi, — mormorò Mendoza, il quale si era gettato a terra.

— Si screditano, — rispose il guascone, ridendo. — Bestemmiano come pagani.

— Ohé, fanalaio!

Don Barrejo prese la torcia e comparve sul terrazzino, gridando con voce grossa:

— Chi mi chiama?

— Un capitano degli archibugieri.

— In che cosa posso esservi utile?

— Non hai veduti qui, poco fa, tre uomini?

— Io no.

— Hai sempre vigilato?

— Non devo lasciar spegnere la lanterna. La mia guardia dura dodici ore.

— Eppure qui devono essere giunti con una scialuppa.

— Vi ripeto, signor capitano, che io non ho veduto né uomini né imbarcazioni. Di quassú li avrei veduti, poiché il faro è alto ventidue metri.

— Sei solo?

— Affatto solo. Non verrò rilevato che domani mattina alle otto.

Il capitano lanciò un sonoro caramba, poi, volgendosi verso i suoi uomini, disse:

— Siamo stati giuocati. Quei furfanti si sono accorti che vi era qualche cosa in aria e si saranno imbarcati in altro luogo. Il nostro dovere l’abbiamo compiuto. Buona sera, fanalista e buona guardia.

— Buona notte, signor capitano e buona fortuna.

I due drappelli si riordinarono formando una sola colonna e si allontanarono attraverso le dune, avviandosi verso Panama.

— Avete veduto che bel giuoco, Mendoza? — disse il guascone, rientrando sul terrazzino della lanterna. — Sono piú astuti al di qua o al di là del mar di Biscaglia?

— Voi avete fatto qualche patto col diavolo, — rispose il basco, ridendo.

— Andiamo a trovare il conte e fuggiamo prima che qualche dubbio sorga nel cervello di quel capitano. Non si sa mai quello che può succedere.

— Il signor di Ventimiglia sarà un po’ debole.

— Don Ercole è robusto come l’Ercole dell’antichità e, se sarà necessario, lo porterà.

Scesero nella cameretta, dove trovarono il conte il quale stava discorrendo tranquillamente col vero fanalista, avendogli fatto togliere il bavaglio.

— Signore, — gli disse il guascone, — quando vorrete, potremo riprendere la nostra marcia. I briganti che vi hanno assaltato e ferito si sono allontanati.

— Potete reggervi, signore? — chiese Mendoza.

— Mi basterà un braccio per appoggiarmi, — rispose il conte.

— Allora sarà meglio che affrettiamo la nostra partenza, — disse il guascone, il quale si era già spogliato della divisa bigia dei fanalisti.

— Sono pronto.

— Toh!... Ora che ci penso, questo sorvegliante deve ben possedere qualche scialuppa, è vero, brav’uomo?

— Sí, — rispose il fanalista, — però non è mia. Appartiene alla capitaneria.

— Direte che il mare l’ha portata via ed intascherete un altro gruzzolo di piastre. Potremo cosí rientrare in Panama senza incontrare i briganti che volevano depredarci. Quanto volete per cedercela?

— Vi faccio osservare che in questi giorni il mare è sempre stato tranquillissimo.

— Direte ai vostri superiori che faceva acqua e che è andata a fondo, — ribatté il guascone. — Sapete che sono abituato a offrire o piombo o argento.

— Lo so purtroppo.

— E vi lagnate?

— Avrò dei fastidi.

— Vi offro venti piastre per la scialuppa. È un semplice canotto. Oh!... Noi siamo generosi e poi cosí correremo piú presto.

Poi, mentre contava le piastre, mormorò fra sé:

— Già sono denari dell’illustrissimo don Juan de Sasebo, Consigliere dell’Udienza Reale di Panama.

Quand’ebbe finito di contare e molto scrupolosamente, poiché, in fondo, il guascone era sempre avaro come tutti i suoi compatriotti, disse:

— Ed ora, signor fanalaio, guidateci.

Tutti e cinque lasciarono il faro e si diressero verso un’alta scogliera, la quale serviva a proteggere la costruzione contro l’impeto delle onde.

Appeso a due paranchi installati su una roccia al disotto di due fortissime grue di ferro, stava un canotto, sufficiente a contenere sei o sette uomini e già fornito di remi e d’un piccolo albero con una vela triangolare.

Il fanalaio, che sembrava molto soddisfatto della generosità di quei misteriosi personaggi, aiutato da don Ercole, lo calò in mare.

L’acqua, dietro alla scogliera, era tranquillissima, quindi l’imbarco fu assai facile.

Essendo il vento propizio, Mendoza issò l’alberetto e spiegò la vela, mentre il conte si sedeva a poppa prendendo la barra del timone.

— Addio, fanalaio! — gridò il guascone, prendendo un remo.

— Colle nostre piastre comperati un barilotto d’aguardiente. Fa bene ai vecchi, te lo assicuro io.

Il canotto prese subito la corsa, mentre il sorvegliante del faro si levava il berrettone di tela cerata, gridando:

— Buon viaggio, miei signori!

Il Pacifico, quella notte almeno, era tranquillo.

Solamente la risacca muggiva e rimuggiva cupamente intorno alla scogliera e contro le dune di sabbia, accartocciandosi curiosamente.

Mendoza si era messo a guardia della vela, don Ercole ed il guascone a prora.

La brezza essendo un po’ fresca spingeva celermente il canotto, il quale seguiva la spiaggia alla distanza d’un centinaio di metri, puntando verso la bocca del porto.

Il sole cominciava a mostrarsi, quando i quattro corsari doppiarono la lanterna della casa blanca.

Panama, l’opulenta città dell’Oceano Pacifico, l’emporio di tutte le ricchezze del Messico, del Perú e del Chili, si presentava dinanzi ai loro sguardi.

Potevano entrare liberamente nella baia, senza correre pericolo alcuno, poiché le caravelle spagnuole non sorvegliavano la bocca che dopo il tramonto dell’astro diurno fino all’alba, per impedire una sorpresa notturna da parte dei filibustieri di Taroga.

Spinsero quindi il canotto sulle tranquille acque della baia, filando fra un gran numero di navi e presero terra verso l’estremità meridionale delle calate.

— Che cosa ne faremo ora di questa piccola scialuppa? — chiese il guascone, balzando a terra.

— Volete portarla alla fonda della bella sivigliana? — chiese Mendoza. — Se ciò vi può far piacere, caricatevela sulle spalle.

— Costa venti piastre.

— Avaraccio!

— Non sarei un guascone.

— Prendetevela dunque.

— Se don Ercole se la mettesse in testa.

— Un cappello troppo brutto, — rispose il fiammingo. — La lascio a voi.

Non potendo portarsela con loro, senza attirare l’attenzione dei numerosi mercatanti e facchini che ingombravano le calate, l’abbandonarono.

Mendoza offrí al conte il suo braccio ed i quattro corsari s’avviarono verso la fonda della bella castigliana, procedendo lentamente e chiacchierando fra di loro come ricchi sfaccendati.

Mezz’ora dopo giungevano dinanzi all’albergo, il quale in quel momento era affatto vuoto.

Panchita, la graziosa vedova, stava risciacquando bicchieri e bottiglie.

Vedendo comparire il conte ed i suoi compagni, per poco non lasciò cadere a terra il vassoio pieno di tazze che stava per deporre su un tavolo.

— Voi, signor conte! — esclamò.

— Non gridate cosí, Panchita, — disse Mendoza. — Volete perderci?

— Siamo soli.

— Non sono piú tornate le guardie del porto? — disse il corsaro.

— Non le ho piú vedute, signor conte, dopo quella sera.

— Nessuna persona sospetta è venuta a ronzare in questi dintorni?

— Non sono entrati qui che i soliti bevitori, — rispose la bella sivigliana.

Señora, — disse il guascone, — vorreste allora favorirci una buona colazione nella stanza superiore? Soprattutto badate che ci siano delle buone bottiglie.

— Vi offrirò il meglio che possiedo. Voi siete signori per bene e generosi.

— Se qualcuno verrà per spiare, ci avvertirete.

— Non dubitate.

Salirono nello stanzone che serviva da dormitorio e, mentre Mendoza rinnovava la fasciatura al conte, il guascone e don Ercole allestirono la tavola, avendo prima fatta provvista di piatti e di salviette per non affaticare troppo la bella vedova. Diamine!... Era sempre galante don Barrejo, signore di Lussac!

La taverniera non tardò a giungere, portando sulle robuste braccia dei canestri pieni di vivande e soprattutto di bottiglie scelte fra le migliori che aveva in cantina, non ignorando che Mendoza ed il guascone davano loro la preferenza.

— Questa sivigliana è veramente una taverniera modello! — esclamò don Barrejo. — In poche ore che siamo stati qui ha indovinato i nostri gusti, è vero, basco? Questa fonda fra qualche anno farà la fortuna di questa señora.

— Oh!... Chiamatemi semplicemente Panchita, signore, — rispose la vedova.

— Mai, señora: io sono un gentiluomo e per me la donna, qualunque sia, è sempre una dama.

— Don Barrejo sareste per caso innamorato di questa bella castigliana? — chiese Mendoza, scherzando.

— Sí, delle sue bottiglie, — rispose gravemente il guascone.

Il conte diede il segnale dell’attacco della colazione, avendo estremo bisogno di rinforzarsi, in vista di possibili gravi avvenimenti.

— Ora, signor di Ventimiglia, — disse il guascone quando fu ben pieno e che ebbe sturata una bottiglia di Bordeaux, chissà per quale caso scoperta nella cantina del defunto taverniere, — parliamo seriamente dei nostri affari. Quando io mangio e bevo, mi si aguzza straordinariamente la fantasia e le idee piú meravigliose vi spuntano come i funghi.

— Speriamo che sia spuntato un fungo molto grosso, — rispose il conte, il quale, quantunque la sua ferita gli desse non poca noia, aveva fatto onore al pasto.

— Questo dipende da voi, signor conte — rispose il guascone, dopo d’aver tracannato d’un fiato un bicchiere di eccellente vino francese. — Vorrei prima di tutto chiedervi se sarebbe meglio catturare il marchese di Montelimar, o don Juan de Sasebo o qualcuno dei loro servi. Sorprendere quei due cani grossi, mi pare che sarebbe una impresa un po’ difficile, abitando costoro nel centro della città.

— E cosí? — chiese il signor di Ventimiglia.

— Se io e don Ercole vi portassimo invece un servo di quei messeri? Quella gente là hanno sempre un mayoral, ossia una specie di maggiordomo che conosce quasi sempre i segreti del padrone. La faccenda sarebbe piú facile, mi pare.

— Lascio a voi intera libertà d’agire, — rispose il signor di Ventimiglia. — Mi avete ormai dato troppe prove di essere un furbo matricolato, capace anche di far prigioniero il Viceré di Panama.

— Se potessi sorprenderlo e condurlo a Taroga, sareste sicuro di avere vostra sorella prima di quarantotto ore, — rispose il guascone. — Sarà per un’altra volta. Don Ercole, volete accompagnarmi?

— Sono sempre a vostra disposizione, — rispose il fiammingo, il quale beveva come un otre.

— Voi, Mendoza, rimarrete qui a tener compagnia al signor conte. Se tardiamo, non preoccupatevi. Il vostro affare non sarà facile, tuttavia io non dispero di riuscire nel mio intento. Una zucca guascone vale sempre qualche cosa di piú delle altre, almeno cosí dice un nostro vecchio proverbio.

Vuotò un altro bicchiere, poi, dopo d’aver salutato il signor di Ventimiglia il quale, aiutato da Mendoza stava per coricarsi su uno dei sette letti che ingombravano lo stanzone, uscí insieme a don Ercole che sbuffava come una foca.

La bella Castigliana stava mettendo ancora in ordine la taverna.

— Señora, — disse il guascone, arricciandosi i baffi. — Io spero di ritrovare questa sera un’altra bottiglia di quel famoso Bordeaux. Non sarà stata l’ultima della vostra cantina.

— Ne cercherò qualche altra, caballero, — rispose la bella vedova, mostrando i suoi candidi dentini.

— Conto su di voi o meglio sulla vostra cantina.

Si levò con molto sussiego il feltro piumato, come se si trovasse dinanzi ad una grande dama, le mandò sulla punta delle dita un bacio e se ne andò, seguito dal silenzioso fiammingo.

— Amico, — disse il guascone, — andiamo a fare una passeggiata nella calle d’Aramejo. Io non so veramente dove si trovi, però sono sicuro di scovarla. Deve passare dietro il palazzo di quel briccone di Consigliere. Sulla piazza maggiore potremmo incontrare o don Juan de Sasebo od il marchese e allora che brutta frittata! Prendiamo le retrovie.

— Che cosa volete fare, insomma?

— Portare via almeno qualche servo del marchese.

— In pieno giorno?

Il guascone si fermò, guardando con un certo stupore don Ercole.

— Tonnerre!... — esclamò. — I fiamminghi avrebbero per caso il cervello un po’ ottuso? Noi guasconi l’abbiamo sempre avuto limpidissimo.

— Voi parlate oscuro.

— Forse avete ragione, don Ercole, piú tardi mi spiegherò meglio.

Accesero ognuno un grosso sigaro, fornito loro dalla bella Castigliana e continuarono il cammino, chiedendo di quando in quando ai passanti dove si trovava la via dell’Aramejo.

I ventiquattro campanili della città suonavano mezzogiorno, quando finalmente giunsero dietro il palazzo di Don Juan de Sasebo.

Si calarono per precauzione i feltri piumati sul viso e si avvicinarono alla piccola porta, presso la quale passeggiava gravemente un giovane meticcio armato d’alabarda.

— Ecco il mio uomo, — disse il guascone, — Preferisco un mezzo bianco ad un negro completo. Sono piú intelligenti e meno furbi di quei selvaggi figli dell’Africa. Don Ercole, aspettatemi qui e continuate pure a fumare. Quest’affare lo sbrigherò io solo.

Mosse risolutamente verso il meticcio e, dopo di essersi levato il cappello, gli disse con voce quasi piagnucolosa.

— L’illustrissimo signor Consigliere don Juan de Sasebo si troverebbe per caso nella sua abitazione?

Il meticcio si fermò bruscamente, squadrò superbamente il guascone, poi, dopo d’aver appoggiata la pesante alabarda contro lo stipite della porta e di essersi messe le mani sui fianchi, chiese superbamente:

— Chi siete voi?

— Un povero avventuriero, che giunge dal Messico, povero, per modo di dire poiché tengo nelle mie tasche un centinaio e piú di piastre che potrebbero passare nelle vostre.

Il meticcio, udendo parlare di piastre, che poteva guadagnare e forse senza fatica, diventò un po’ meno superbo.

— Che cosa vorreste voi dal mio illustrissimo padrone Consigliere dell’Udienza Reale di Panama?

— Desidererei consegnargli una supplica perché mi venga resa giustizia. Vengo dal Messico appositamente e sono pronto a rimettere i miei ultimi risparmi a chi mi aiuterà in questa faccenda.

— Non mi avete detto di che cosa si tratta.

— Ah!... La istoria è lunga da narrarsi e non potrei farvela conoscere qui, in mezzo alla via. Se vorreste seguirmi all’albergo dove io abito, potremmo bere delle eccellenti bottiglie.

Il meticcio, che già vedeva risplendere dinanzi ai suoi occhi un bel numero di piastre, chiamò il negro che fumava sul primo gradino della scalinata e gli consegnò l’alabarda, dicendogli:

— Prendi il mio posto e questa sera ti pagherò un fiasco d’aguardiente. Devo accompagnare questi signori.

Poi, volgendosi verso il guascone ed il fiammingo, aggiunse:

— Sono ai vostri ordini.

— Venite e passeremo una allegra mezza giornata, — rispose don Barrejo.

Si misero in cammino lungo la strada. Il guascone guardava attentamente a destra ed a sinistra cercando una taverna qualunque, non volendo, per precauzione, condurre il meticcio nella posada della bella Castigliana.

Dopo aver percorso parecchie vie, scoprí finalmente una fonda, una specie di osteria, frequentata per lo più da persone equivoche e che non aveva certamente un bell’aspetto.

— Eccoci sul posto, — disse il guascone. — Qui si beve bene e veri vini di Spagna.

Entrarono, sbatacchiando l’uscio, come persone alle quali è permessa un po’ di confidenza e si assisero ad una tavola situata nell’angolo piú oscuro dello stanzone.

L’oste, un pezzo d’uomo assai bruno e molto barbuto, fu pronto ad accorrere alla strepitosa chiamata del guascone.

— Che cosa desiderate, caballeros? — chiese.

— Quattro bottiglie del migliore che tenete nella vostra cantina, disse don Barrejo. — Badate che se non è vino di Spagna o di Francia io vi taglierò gli orecchi.

L’oste, abituato già alle gradassate degli avventurieri che piovevano numerosi in Panama, dal Messico e dal Perú, scappò via ridendo e ritornò poco dopo colle bottiglie che, dalla polvere che le copriva e dalle ragnatele, sembravano venerande.

— Vi chiamate? — chiese il guascone, volgendosi verso il meticcio.

— Alonzo.

— Ebbene, mio caro Alonzo, bevete liberamente, perché pago io. Poi verranno le piastre.

— Siete generoso, — rispose il meticcio; — piú generoso del mio padrone.

Empirono le tazze e le vuotarono d’un colpo e continuarono cosí finché due bottiglie furono asciutte.

— Ora che abbiamo un po’ riscaldata la lingua, parliamo, — disse il guascone, il quale pareva che avesse mandato giú tanta acqua, mentre il povero meticcio, non abituato certo a bere del vino cosí generoso, cominciava a sentirsi girare la testa. — Dovete sapere dunque, mio caro Alonzo, permettetemi di chiamarvi cosí...

— Fate pure, — rispose il meticcio, il quale si era addossato al muro, non bastandogli piú lo sgabello.

— Dunque dicevo, — riprese il guascone, sturando una terza bottiglia, — che io ho combattuto molto nel Messico contro gl’indiani ribelli. Credo di averne ammazzati per lo meno cinque o seicento e di aver abbruciati almeno una sessantina di cacichi pagani.

— Un terribile guerriero, ve lo dico io, — disse il fiammingo, il quale tratteneva a stento le risa.

— Misericordia! — esclamò il meticcio, spaventato.

— Silenzio e lasciatemi parlare, mio caro don Alonzo. Il viceré del Messico mi aveva promesso, per compiere tali eroiche imprese, la bagatella di mille e cinquecento dobloni. Orbene, quel furfante invece di pagarmi mi mise in prigione e poi mi espulse dal Messico.

— Mal fatto, — rispose il meticcio.

— E come, anche!... Capirete, mio povero amico, che io non voglio perdere i miei dobloni e perciò sono venuto a Panama affinché mi sia resa giustizia.

— E fate bene.

— Quindi ho scritta una supplica per presentarla all’illustrissimo Consigliere don Juan de Sasebo, vostro padrone, perché la consegni al Presidente dell’Udienza Reale.

— M’incarico io, — rispose il meticcio. — Volete darmela?

— Non abbiate tanta fretta, amico. Abbiamo ancora da bere, tonnerre!... Ah!... È vero che il vostro padrone ospita il marchese di Montelimar?

— Sí, signore. Lo conoscete voi?

— Abbiamo bevuto parecchie volte insieme, al Messico e abbiamo anzi divorati parecchi pranzi in allegra compagnia.

— Che brav’uomo quel marchese!...

— Io lo stimo il primo soldato dell’America centrale.

— Lo dicono tutti, — rispose il meticcio, vuotando un altro bicchiere che il fiammingo gli porgeva.

— Eppure mi avevano detto che era stato fatto prigioniero dai filibustieri del Pacifico.

— È vero, però è riuscito a scappare.

— Ah!... Ditemi un po’, mio caro amico, sapete che il marchese abbia una figlia? Al Messico si diceva che si fosse sposato segretamente con una principessa, però a me non volle mai confessarlo.

— Sicuro che l’ha.

— Bella?

— Bellissima.

— E dove l’ha nascosta: che io non l’ho mai veduta?

— Ultimamente l’aveva affidata al mio padrone.

— E l’ha ancora?

— No, signore, l’ha mandata a Guayaquil, perché erasi sparsa la voce che un famoso corsaro voleva rapirgliela.

— Non era sicura in Panama?

— Si diceva che i filibustieri si preparavano a tentare un colpo di mano sulla città e, per precauzione, il mio padrone l’ha fatta partire. Anzi io facevo parte della scorta.

— Fortezza salda, Guayaquil?

— Fortissima, — rispose il meticcio.

— Un altro bicchiere, ancora. Voi siete un pessimo bevitore. Ehi, oste dannato, porta delle altre bottiglie ed un canestro di pesci salati. Abbiamo fame e anche molta sete, è vero don Alonzo?

Il disgraziato meticcio non si sentí in caso di rispondere. Sempre addossato alla parete, guardava il guascone con due occhi che non avevano piú alcuna espressione.

— È finito, — sussurrò don Ercole al guascone.

— Pare anche a me.

— E la supplica?

— Aspetta che chiuda gli occhi. Per ora so quanto desideravo.

Il trattore aveva portato i pesci salati ed altre bottiglie.

Il meticcio ne mangiò qualcuno, bevette un altro bicchiere, poi si abbandonò contro la parete, russando quasi subito.

Il guascone ed il fiammingo terminarono tranquillamente la loro seconda colazione, vuotarono coscienziosamente le altre bottiglie, e, dopo d’aver pagato lo scotto, se ne andarono non senza aver raccomandato all’oste di lasciar digerire il vino al povero meticcio, senza disturbarlo.

La digestione fu piuttosto lunga, poiché non fu che verso le otto della sera che il servo di don Juan de Sasebo aprí gli occhi.

Si guardò intorno, stupito di trovarsi solo.

— Ehi, taverniere! — gridò. — Dove sono andati quei signori che mi tenevano compagnia?

— Se ne sono andati cinque o sei ore fa, — rispose l’omaccione.

— Senza lasciarvi alcuna carta?

— No.

— Ed un gruzzolo di piastre da consegnare a me?

— Hanno pagato il conto e nient’altro.

Quantunque avesse il cervello ancora un po’ annebbiato pel troppo vino ingollato, il disgraziato ebbe un lampo di lucidità.

— Che cosa ho fatto io, sciagurato! — esclamò. — Quei due individui erano certamente due nemici del mio padrone e mi hanno condotto qui per farmi cantare su cose che forse li interessavano ed io, stupido, sono caduto nella trappola. Correrò a narrare tutto al mio padrone. Mi ricordo ancora quello che mi hanno domandato, malgrado il gran vino bevuto. Furfanti!... M’avete derubato delle piastre, ma io ve le farò pagare.

Uscí dalla fonda come un pazzo e dieci minuti dopo don Juan de Sasebo che stava nel suo gabinetto, conosceva quanto era accaduto al disgraziato. Il marchese di Montelimar era presente alla narrazione.

— Tu sei un miserabile! — urlò il Consigliere, quando il meticcio ebbe finito di raccontare la sua gita alla fonda. — Tu meriteresti di morire sotto la frusta, canaglia!...

— Ammazzatemi pure, — rispose il servo, il quale si strappava a ciocche a ciocche i suoi capelli lanuti. — Sí, sono stato un miserabile.

— Un asino!... Un bue!...

— Sí, un bue, padrone.

— Quest’uomo ci ha traditi, — disse il Consigliere, volgendosi verso il marchese di Montelimar il quale fumava flemmaticamente un grosso sigaro, sdraiato su una soffice poltrona coperta di pelle rossa di Cordova con grosse bordure dorate.

— Adagio, amico, — rispose l’ex-governatore di Maracaibo. — Questa avventura potrebbe invece portarci fortuna.

— Tu lo credi?

— Udiamo un po’, Alonzo, — riprese il marchese, senza rispondere al Consigliere. — Uno di quei due uomini era alto, magro, assai bruno, con due baffi neri, assai rialzati e due occhi piccoli e scintillanti?

— Sí, Eccellenza.

— E portava alla cintura, invece d’una spada, una draghinassa, vero?

— Verissimo, Eccellenza.

— Lo conosci tu? — chiese il Consigliere.

— È il braccio destro del conte di Ventimiglia, — rispose il marchese. — Sono ben audaci quei furfanti! D’altronde nulla è perduto, anzi io credo che questa avventura ci gioverà. Giacché quell’imbecille di Valiente con tutte le sue spacconate si è fatto stupidamente ammazzare, noi organizzeremo una vera caccia al conte. È piú facile coglierlo in aperta campagna che in Panama, dove può trovare mille rifugi. Metti a mia disposizione cinquanta cavalieri scelti e vedrai che io coglierò quei corsari, prima che vedano le mura di Guayaquil.

— Anche cento, se ne vuoi.

— Non troppi: pochi ma coraggiosi, e poi i filibustieri non sono che in quattro, e per quanto valenti, non potranno tenere testa ad un mezzo squadrone ben montato e bene armato.

— Chi guiderà la spedizione?

— Io, — rispose il marchese. — Voglio finirla una buona volta con quel conte, il quale turba continuamente i miei sonni. Se non è il diavolo in persona, non mi sfuggirà.

— Credi tu che siano già sulla strada di Guayaquil?

— Ne sono certissimo.

— Quando conti di partire?

— Prima della mezzanotte. Manda i tuoi scudieri a reclutare gli uomini che mi sono necessari e bada soprattutto che i cavalli siano ben riposati e di prima qualità.

— Fra un’ora il mezzo squadrone sarà dinanzi alla porta del mio palazzo, — rispose il Consigliere alzandosi.