Il figlio del Corsaro Rosso/Parte II/Capitolo X - Il consigliere dell'Udienza Reale

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Parte II - Capitolo X - Il consigliere dell'Udienza Reale
Parte II - Capitolo IX - La regina dell’Oceano Pacifico Parte II - Capitolo XI - L’agguato d’«El Valiente»

Capitolo X
Il consigliere dell’Udienza Reale.


Fatta un po’ di toelette, per non sembrare dei veri straccioni, il conte ed i tre avventurieri lasciarono la piantagione, seguendo la riva destra dell’impetuoso fiumicello che aveva servito loro per sfuggire alle guardie della Capitaneria.

Panama si stendeva dinanzi a loro a perdita d’occhio, colle sue superbe chiese e coi suoi magnifici palazzi, formando un gigantesco semicerchio intorno alla meravigliosa baia.

Distrutta da Morgan, la città non aveva tardato a risorgere dalle sue rovine, piú bella e piú vasta di prima. Era stata però ricostruita alcune leghe piú al sud, in una pianura infinitamente piú salubre della prima e anche piú spaziosa, ed il suo porto aveva acquistato una prosperità che tutte le città marittime del centro d’America, del Perú, della Bolivia e del Chili le invidiavano.

Quantunque minacciata continuamente dai filibustieri, sempre in agguato sull’Oceano Pacifico, squadre di velieri e di galeoni giungevano dai porti del sud, portando ricchezze incalcolabili e soprattutto i prodotti delle inesauribili miniere d’oro del Perú e anche di quelle d’argento e non meno inesauribili della California e del Messico.

I tre avventurieri ed il conte, fatta colazione in una fonda, ossia in una piccola trattoria d’una delle innumerevoli borgate della città, le quali s’allungavano in mezzo a floridissime piantagioni, s’avviarono verso i quartieri signorili della città, fingendosi tranquilli borghesi a passeggio.

Mendoza, come sempre, li guidava, essendo pratico della città. Pranzarono in un’altra fonda, non osando ancora accostarsi alla posada tenuta dalla bella castigliana, perché poteva ancora essere guardata da qualche manipolo di guardie e, calata la sera, s’avviarono verso l’immensa piazza dove sorgevano il palazzo del viceré, la cattedrale ed i palazzi dei consiglieri dell’Udienza Reale di Panama.

— Signor conte, — disse il guascone, mentre s’incamminavano verso l’abitazione di don Juan de Sasebo, — verremo noi ricevuti da quel signore? Un Consigliere dell’Udienza Reale deve essere un pesce-cane grossissimo.

— Ci pensavo in questo momento, — rispose il figlio del Corsaro Rosso.

— Suppongo che non avrete l’idea di farvi annunciare pel conte di Ventimiglia, signore di Roccabruna e di Valpenta.

— Sarebbe come mettermi una corda al collo.

— È necessario trovare qualche scusa.

— Voi che siete guascone e che avete sempre delle trovate splendide, gettatene fuori una.

— L’ho qui nel cervello, — rispose don Barrejo.

— Spiegatevi dunque.

Il guascone si fermò a guardare il conte, poi gli disse:

— E perché non potremmo noi farci annunciare come messi dell’Illustrissimo Presidente dell’Udienza Reale di Panama, incaricati di fare ai consiglieri delle gravissime rivelazioni?

— Su che cosa?

— Sui progetti dei filibustieri, per esempio.

— Voi avete una fantasia meravigliosa.

— Me lo diceva anche mio padre, predicendomi che avrei fatto una grande fortuna. Credo però, fino ad oggi, di aver dato piú stoccate che guadagnate piastre. Mio padre era troppo vecchio, povero uomo e non ci vedeva piú bene.

— Non avete ancora terminata la vostra carriera, — disse Mendoza. — Invece di arruolarvi sotto gli spagnuoli di San Domingo, dovevate correre il mare coi filibustieri del Golfo del Messico.

— Avete ragione, signor basco. Sono stato un imbecille però spero di rifarmi.

Erano giunti sulla immensa piazza della cattedrale. Da una parte giganteggiava il marmoreo palazzo del viceré; dall’altra s’alzava una lunga fila di palazzi, abitati dai pezzi grossi del governo, e dinanzi ai portoni, guardati da un paio di alabardieri negri, brillavano delle immense lanterne.

Il guascone afferrò per una manica il primo soldato che attraversava la piazza, chiedendogli ove abitava il Consigliere don Juan de Sasebo.

— Quel portone, là, di fronte a voi, — rispose lo spagnuolo. — Venite dal Chili o dal Perú voi, per non sapere ove abita un personaggio cosí importante?

— Veniamo dal Messico, il paese degli ignoranti, — ripicchiò il guascone, un po’ seccato.

Il soldato si strinse nelle spalle e proseguí il suo cammino, borbottando:

— Questi avventurieri del Messico si sono incretiniti, bevendo troppo metzcal.

Fortunatamente il terribile guascone non l’aveva udito.

Il conte ed i suoi spadaccini si erano diretti verso il palazzo del Consigliere dell’Udienza Reale di Panama e si erano presentati ai due negri che passeggiavano dinanzi e indietro sulla gradinata.

— Il vostro padrone è in casa? — chiese il conte.

— Sta lavorando nel suo gabinetto.

— Andate ad avvertirlo che ho una comunicazione importantissima da fargli, da parte dell’illustrissimo signor Presidente dell’Udienza Reale. Dieci piastre per voi se fate presto.

Uno dei due negri si slanciò come un giaguaro su per la superba gradinata, allettato da quel premio che non doveva guadagnare troppo spesso.

Non era trascorso un minuto che ridiscendeva, saltando i gradini a quattro a quattro, col pericolo di fiaccarsi il collo.

— Seguitemi, caballero, — disse. — Il signor Consigliere vi aspetta.

Il conte sborsò le dieci piastre e salí lo scalone, sempre seguito dai suoi avventurieri.

Attraversate parecchie sale, furono introdotti in un gabinetto illuminato da due giganteschi doppieri d’argento ed ammobiliato con severa eleganza.

Un uomo d’aspetto distinto, sulla quarantina, con una barba nerissima che faceva spiccare vivamente il candore dell’altissimo colletto stocchettato che usavano in quell’epoca i grandi personaggi, passeggiava pel gabinetto, battendo a terra, con una certa nervosità, la punta della guaina della sua spada.

Il conte si era levato il feltro, facendo nel medesimo tempo un leggiero inchino. I tre spadaccini avevano fatto altrettanto, poi si erano appoggiati contro la porta che avevano subito chiusa, per impedire l’entrata a chicchessia.

— Siete voi don Juan de Sasebo? — chiese il conte.

— In persona, — rispose il Consigliere. — Mi hanno detto che voi avete da comunicarmi delle notizie preziose da parte del Presidente dell’Udienza Reale.

— È vero, signore.

— Parlate, però... — disse, indicando i tre avventurieri.

— Vi dirò poi chi sono, — rispose il conte. — Possono assistere al nostro colloquio.

— Allora parlate.

— Sapete che il marchese di Montelimar è stato fatto prigioniero dai Corsari del Pacifico?

— Avete detto? — gridò il Consigliere, impallidendo.

— Che è stato preso a Nuova Granata.

— È stata espugnata quella città?

— Dopo sei ore di combattimento.

— Malgrado il suo robustissimo forte?

— Nulla resiste ai filibustieri, lo sapete bene.

— Sí, sono veri figli dell’inferno, — disse il Consigliere, con collera.

— Lo credo anch’io, don Sasebo.

— Ed ora?

— Sono venuto a dirvi di mettere al sicuro la nipote del Gran Cacico del Darien.

— Per ordine di chi?

— Del marchese, don Sasebo, — rispose il conte.

— Avete veduto il mio disgraziato amico? — chiese il Consigliere, in preda ad una vivissima emozione.

— L’ho lasciato ventiquattro ore fa...

— Dove?

— All’isola Taroga.

— Eravate caduto anche voi fra le unghie di quei ladroni?

— Sí, signor Consigliere.

— E siete riuscito a fuggire?

— Ho avuto questa fortuna e questi tre uomini mi hanno aiutato validamente. Senza di loro io non sarei qui.

— Erano anche essi prigionieri?

— Sí e sono tre nobili di Nuova Granata.

— E perché il marchese non ha potuto seguirvi? — chiese il Consigliere.

— È strettamente sorvegliato.

— Poteva riscattarsi. Io sarei stato pronto a pagare a quei ladroni di mare anche cinquantamila piastre, se le avessero chieste.

— E le avrebbero senza dubbio accettate, se un uomo non vi si fosse opposto.

— Chi?

— Il figlio del Corsaro Rosso, il conte di Ventimiglia.

Don Sasebo aveva mandato un grido.

— Il figlio del famoso corsaro e nipote dei non meno famosi corsari, il Nero ed il Verde, è giunto in America?

— Sí, signor Consigliere.

— Che cosa è venuto a fare qui?

— A cercare sua sorella, la nipote del Gran Cacico che vi è stata affidata.

— Come lo sapete voi?

— Me lo ha detto il marchese.

— E che cosa vorrebbe il conte, per rimettere in libertà il mio povero amico?

— La restituzione di sua sorella.

— E se non si trovasse piú presso di me?

Questa volta fu il signor di Ventimiglia che divenne pallido.

— Possibile! — disse poi. — Il marchese mi aveva assicurato che si trovava con voi.

— Infatti vi era.

— Ed ora?

Invece di rispondere, il Consigliere chiese:

— Credete voi possibile, signore, la liberazione del marchese?

— E come?

— Voi conoscete l’isola di Taroga, giacché m’avete detto poco fa che ci siete stato come prigioniero.

— È verissimo, — rispose il conte, il quale si teneva in guardia, non sapendo dove voleva finire il Consigliere.

— Non potreste assoldare, a mie spese, una dozzina di avventurieri, persone che a Panama non mancano, e tentare la liberazione del marchese?

— Ciò che voi mi proponete, signore, è una faccenda molto seria. I filibustieri vegliano e, se ci prendono, non ci risparmieranno.

— Io non conterò le piastre.

— Non voglio dirvi né sí, né no, signor Consigliere, — rispose il corsaro. — Trattandosi però d’una impresa cosí, desidererei che mi accordaste almeno ventiquattro ore per riflettere.

— Anche quarant’otto, se lo desiderate, — rispose don Juan de Sasebo.

— Tornerò domani sera, se non vi spiace, e vi darò una risposta affermativa o negativa. Nel caso che accettassi e che riuscissi a liberare il marchese, che cosa dovrò dirgli della fanciulla che vi ha affidata?

— Che è al sicuro.

— Ma dove? — insistette il conte.

— Non lo dirò che al marchese.

Il signor di Ventimiglia represse con grande fatica un gesto di collera.

— Ci rivedremo domani sera, — disse poi.

— Dove abitate?

— In una piccola posada dei sobborghi, che non so nemmeno come si chiami.

— Vi occorre del denaro?

— Pel momento no, signor Consigliere. Me ne darete se accetterò la vostra proposta.

Don Juan de Sasebo si era alzato, ciò che voleva significare che l’udienza era finita.

Il conte fece un profondo inchino e uscí insieme ai suoi tre spadaccini, non troppo soddisfatto di quel colloquio.

Non era forse ancora uscito dal palazzo, quando un servo entrò nel gabinetto, dicendo:

— Signore, vi è una persona che desidera vedervi.

— Ti ha detto chi è?

— Il signor marchese di Montelimar.

Il Consigliere aveva fatto un salto.

— Tu devi aver udito male.

— No, padrone, — rispose il negro.

— È impossibile che il mio amico sia giunto.

— Mi ha detto che è il marchese di Montelimar.

— Introducilo subito, subito.

Il servo uscí ed un istante dopo entrava, seguito dal marchese.

— Tu! — esclamò il Consigliere, correndogli incontro ed abbracciandolo. — Non sogno io?

— No, amico, — rispose l’ex-governatore di Maracaibo. — Qualche volta si scappa anche ai filibustieri.

— E sei giunto solo da Taroga?

— Insieme ad una dozzina di prigionieri.

— Ed io che avevo impegnato un avventuriero per liberarti?

— Chi è?

— Quello che mi avevi mandato per aver notizie sulla nipote del Gran Cacico del Darien.

— Io! — esclamò il marchese. — Che cosa mi narri tu, don Juan?

— Come!... Non lo hai mandato?

— Io non ho dato a nessuno questo incarico, — rispose il marchese.

— Chi è dunque quell’avventuriero?

— Un uomo solo può avere interesse a sapere che cosa è avvenuto e dove si nasconde la nipote del Gran Cacico del Darien. Si trova sempre presso di te?

— No, — rispose il Consigliere.

— Dove l’hai mandata adunque?

— Da parecchie settimane corre qui voce che i filibustieri abbiano intenzione di tentare un audace colpo di mano sulla città e sapendo io, che mi trovavo a Panama quando la presero d’assalto, di quanto siano capaci quei terribili ladroni di mare, l’ho fatta condurre, sotto buona scorta, a Guayaquil, una città che non si può prendere facilmente.

— E hai fatto bene, — rispose il marchese, — poiché un giorno quella fanciulla varrà milioni e milioni di piastre, che intendo d’intascare io. Se poi il figlio del Corsaro Rosso la vorrà, se la prenda pure senza piastre.

— Che cosa mi narri tu, amico?

— È l’unica erede delle favolose ricchezze del Gran Cacico e, quando il vecchio sarà morto, diventerà la padrona di montagne d’oro, che si dice siano nascoste in caverne note solamente agli intimi del selvaggio monarca.

— È dunque ancora vivo il Gran Cacico?

— E gode ottima salute, malgrado i suoi ottanta o novant’anni.

— Tu dunque credi che quell’avventuriero?...

— Non sia altri che il signor di Ventimiglia, — rispose il marchese. — Un bell’uomo, giovane ancora, vero tipo d’italiano, coi capelli e baffi neri, la pelle leggiermente abbronzata...

— Sí, è lui! — esclamò il Consigliere.

— Era accompagnato da tre uomini?

— Sí, tre figure di spadaccini.

— Le sue anime dannate. Tornerà qui?

— Domani sera.

— Al mio posto che cosa faresti, don Juan?

— Lo farei arrestare ed appiccare al piú presto.

Il marchese scosse il capo.

— No, — disse poi. — Si verrebbe a sapere che la bella indiana che io ho adottata è la figlia del Corsaro Rosso; si potrebbe anche venire a sapere che io ho un motivo per tenerla presso di me e molte altre cose ancora. No; si può spacciarlo senza rumore.

— Che cosa vuoi dire, amico?

— Non avresti sottomano qualche terribile spadaccino? Uno famoso veh, perché si dice che il conte sia una lama terribile. Un agguato, una disputa, una buona stoccata ed eccomi sbarazzato da quell’importuno.

Il Consigliere pensò un momento, poi disse:

— L’ho trovato.

— Chi è?

— Lo chiamano: El Valiente, ma pare che sia un avventuriero dell’Europa centrale, poiché massacra orribilmente la nostra lingua. Mi sono servito di lui una volta, in una certa circostanza e non ho avuto da lagnarmi della sua abilità.

— Una lama scelta?

— Terribile.

— Costosa?

— Un cinquanta piastre.

— Ne darei anche mille, purché riuscisse ad abbattere il figlio del Corsaro Rosso.

— Tu dimentichi una cosa.

— Quale.

— Ed i tre avventurieri che accompagnano il conte?

— Troveremo un pretesto qualunque per trattenerli qui. Si potrebbe vedere questo Valiente?

— Subito?

— Se fosse possibile sarebbe meglio.

— So dove abita: manderò un uomo a cavallo ad avvertirlo di venire subito.

Guardò l’orologio appeso al muro, uno di quegli orologi altissimi, chiusi in una cassa.

— Non sono che le nove, — disse. — Fra dieci minuti può essere qui, aspettami.

Il Consigliere uscí per dare gli ordini, poi rientrò, dicendo:

— Il messo è già a cavallo; intanto ceneremo, poiché m’immagino che avrai fame, caro amico.

— È da ieri sera che non mangio, — rispose il marchese.

Don Juan de Sasebo lo fece passare in un vicino salotto, ammobiliato con molto gusto e dove una tavola era pronta, con bellissimi piatti d’argento finemente cesellati.

Erano già alle frutta, quando un servo negro entrò, dicendo al Consigliere:

— Padrone, El Valiente è qui.

— Sei riuscito a scovarlo?

— In una taverna vicina alla sua catapecchia.

— Conducilo qui subito.

Il negro uscí rapidamente ed un momento dopo El Valiente si trovava dinanzi al marchese ed al Consigliere dell’Udienza Reale.

Era quell’uomo il vero tipo dell’avventuriero e spadaccino. Era un uomo alto, grosso, forte come un giovane toro, con lunghi capelli biondastri ed una barba invece rossastra, un naso che somigliava al becco d’un pappagallo e due occhi grigiastri che avevano il lampo dell’acciaio.

Alla cintura portava una spada francese, lunga e sottile ed uno di quei pugnali chiamati: misericordie.

— Mi avete fatto chiamare, Eccellenza? — chiese, facendo un goffo inchino e levandosi il feltro adorno d’una lunga penna di struzzo, ormai rosa dal tempo e dalle intemperie.

— Sí, perché ho ancora bisogno di voi, — rispose il Consigliere.

— Qualche altra persona vi darebbe noia?

— Precisamente.

— Si manda allora all’inferno, — disse lo spadaccino. — Laggiú vi è posto per tutti.

— Anche per voi, — disse il marchese.

— Può darsi, Eccellenza, ma molto tardi, io spero.

— Badate però che l’uomo che dovete spacciare è un gentiluomo che ha il pugno molto saldo.

Un sorriso di sprezzo contorse le labbra del brigante.

— Ho mandato all’altro mondo non pochi gentiluomini, Eccellenza, e piú facilmente di quello che credete. Si vantano tutti famosi spadaccini ed invece non sono che dei pessimi dilettanti, incapaci di fare una buona cartocciata o di parare il colpo delle cento pistole.

— Un colpo famoso, a quanto si dice, — disse il marchese.

— Terribilissimo, Eccellenza. Se non si para, e si para assai difficilmente, si va diritti all’altro mondo, senza un minuto di ritardo. Dov’è l’uomo che devo spacciare?

— Correte troppo, Valiente, — disse il Consigliere.

— Quando devo dare delle stoccate ho sempre fretta, — rispose il bandito.

— Non ucciderete prima di domani sera, — disse il marchese.

— Si può pazientare per venti ore: cosí avrò il tempo di esercitarmi pel colpo delle cento pistole.

— Riuscirà?

— Pochi lo conoscono, Eccellenza. Solo i famosi spadaccini ne sanno qualche cosa.

— E quello è uno dei buoni.

Il bandito alzò le spalle.

— Bah!... Avrà da fare con me.

— Quanto il prezzo?

— Cinquanta piastre per anima, è la mia tariffa. Non lavoro mai per meno. I tempi sono pessimi e si guadagna poco anche ad ammazzare delle persone — rispose El Valiente.

— Ve ne offro invece mille, purché il gentiluomo domani sera sia morto.

Il Valiente corrugò la fronte, come presentisse un terribile pericolo.

— Che quel gentiluomo mi porti sventura? — si chiese. — Per pagarmi mille piastre, bisogna che quel signore sia veramente un formidabile spadaccino.

— Ve l’ho già detto prima che non avrete da fare con un dilettante — disse il marchese.

— Ne ho ammazzati per lo meno venti. Che il ventunesimo deva mandarmi a tener compagnia a messer Diavolo? Io non lo credo. Quando devo venir qui?

— Domani sera, prima dell’Ave-Maria. Vi daremo le istruzioni necessarie.

— Sta bene, — rispose il bandito.

Fece un nuovo e piú goffo inchino, si gettò sulle spalle uno sdruscito sèrapè, che fino allora aveva tenuto sul braccio sinistro, e se ne andò tranquillo, come se avesse fatto un semplice affare commerciale.

— Quando lo farai appiccare? — chiese il marchese a don Juan de Sasebo. — Quel furfante meriterebbe almeno venti spanne di corda e molto solida.

— Quando non si avrà piú bisogno di lui, lo manderemo a tener compagnia a tutti i disgraziati che ha spediti all’altro mondo, — rispose il consigliere.

— Qualche volta anche questi briganti sono necessari.

— Amico, possiamo andare a riposarci.