Le novelle della nonna/Il lupo mannaro

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Il lupo mannaro

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Il lupo mannaro

Tutta la settimana i Marcucci erano stati sossopra per il grande avvenimento. La signora Durini, tornando a Camaldoli, aveva parlato con Carlo Buoni, il quale era tutto lieto della risposta avuta, perché ormai gli pareva che nessuna donna potesse renderlo così felice quanto la modesta e gioviale contadinella di Farneta, che egli aveva incontrato più volte nelle sue passeggiate, e che aveva veduta curva sul lavoro quando passava col fucile in spalla accanto al giardino dell’ispettore Durini. Carlo, accompagnato dal padre, due giorni dopo era sceso a Farneta ed era stato ricevuto da Maso, dalla Carola e dalla Regina, la cui presenza dava una certa solennità a quel conciliabolo. - La mia figliuola è una contadina, - aveva detto Maso, dopo che il padre di Carlo gli aveva chiesto l’Annina, - e pare impossibile che sia potuta andare a genio a un signore come suo figlio. - Ma che signore! - aveva risposto Carlo. - Noi lavoriamo tutti, e io stimo cosa più nobile il lavorar la terra, che lo stare sempre agli ordini del viaggiatore che capita in un albergo. Il mestiere nostro non mi soddisfa punto; e appena avrò messo assieme abbastanza da comprarmi una casetta e un podere, cesserò d’essere l’umilissimo servo dei signori forestieri e mi metterò a lavorare l’orto. Questo è il mio sogno, che non potrei certo effettuare con una moglie assuefatta in città. - Se è così, - aveva detto Maso, - io son contento. Però pensi che l’Annina ha poco o nulla. - Lo so, - aveva risposto Carlo, - io non posso pretendere ricchezze, e quello che avrà mia moglie, voglio che lo debba a me. Ora vado a Firenze, ma fra una diecina di giorni al massimo tornerò qui, e allora mi permetterete d’interrogare l’Annina, perché se lei non è contenta, non se ne fa nulla. - La interroghi pure, io son contento e non muto opinione. - E io pure, - disse la Carola, che già pensava all’invidia dell’altre ragazze. - La nonna non parla? - domandò il padre Buoni. - Sì, parlo anch’io! - esclamò la Regina, - e dico che confido con piacere a quel bravo giovane la mia cara nipotina. La sola raccomandazione che gli faccio, è quella di volerle bene. - Per questo non c’è da temere: - replicò Carlo, - l’ho scelta liberamente; voi me la confidate, e io sarei un vero birbante se non cercassi di renderla felice. Il padre Buoni guardò l’orologio e fece osservare al figlio che mancava appena una mezz’ora alla partenza del treno da Poppi. Maso però non volle che i suoi ospiti risalissero in carrozza senza bere un bicchierino di aleatico, e si fece promettere che al ritorno, il padre si sarebbe fermato un momento, prima di risalire a Camaldoli, tanto, lì, doveva prendere un trapelo. Naturalmente la Carola aveva messo a parte le cognate della chiesta, e queste, che volevan bene all’Annina come se fosse loro figliuola, eran molto contente della fortuna che capitava alla ragazza (poiché Maso s’era informato e aveva saputo che il padre Buoni era ricco e che il giovane era una persona onestissima), e non rifinivano di ciarlare fra di loro di quel fatto. Ciò che maggiormente le colpiva, si era che l’Annina, maritandosi, avrebbe migliorato le sue condizioni. - Porterà il cappello! - dicevano. - Si vestirà come una signora! Non se la potevano figurare, quella ragazza, in una casa con i mobili da città, non più serva in casa altrui, ma padrona in casa propria. E tutte quelle buone donne affrettavano col pensiero il momento del matrimonio, per assistere a quella trasformazione. Ai ragazzi Marcucci non era stata fatta alcuna confidenza, perché essi bazzicavano a Camaldoli, accompagnandovi i forestieri che andavano e venivano di frequente in quella calda stagione; ma essi si erano accorti che avveniva qualche cosa d’insolito e dicevano fra loro: - C’è roba in pentola! La settimana passò veloce per tutti, e la domenica la famiglia Marcucci era sola. Il professor Luigi e la moglie erano andati a pranzo dalla figlia, e così le donne si erano concesse un poco di riposo nel dopo pranzo, poiché era tanta la premura che esse dimostravano ai loro ospiti, che stavano in continue faccende. Quando scesero sull’aia, gli uomini vi erano già adunati. Essi avevan giuocato alle bocce per un’oretta, e ora parlavan fra loro del tema preferito: del matrimonio dell’Annina. Nel veder giungere la nonna, i ragazzi corsero a chiedere la novella. La buona vecchia, con la mente rivolta a quel grande avvenimento, avrebbe in quel giorno fatto a meno di raccontare; ma cedé alle dolci insistenze dei piccini e incominciò:

- C’era una volta, a Romena, una ragazza brutta, aiutatemi a dir brutta. La gente del paese, incontrandola, si faceva il segno della croce; e, nonostante che essa fosse figlia di un sensale di bovi e avesse una bella dote, pure non c’era stato nessuno che si fosse attentato a chiederla in moglie, tanto era ripugnante. Questa ragazza, che tutti chiamavano la Teresona, era alta quanto un gigante, e oltre ad avere il labbro leporino che le metteva in mostra le zanne, aveva tutto il viso coperto da una lanugine rossa come i capelli, che la faceva somigliare ad una bestia. Teresona era evitata da tutti, e, accorgendosi della repulsione che ispirava, si era inselvatichita a tal punto che non sapeva neppure più parlare. La madre le era morta da molto tempo e il babbo stava sempre fuor di casa per i suoi traffichi, così ella non scambiava mai una parola con nessuno. La gente diceva che parlava soltanto col Diavolo, perché non la vedeva mai andare in chiesa. Ma non era vero. Teresona non bazzicava né alla messa né al vespro, per non esporsi alle guardatacce della gente; ma era una buona creatura, timorata di Dio, e non avrebbe fatto male a una mosca. Un giorno la Teresona era andata a coglier fragole nei boschi, per farle trovare al suo babbo che tornava quella sera, quando vide disteso in terra, pallido, estenuato, un uomo giovane ancora e d’aspetto signorile, benché fosse malamente vestito. Teresona, che aveva un cuore affettuoso e non poteva veder soffrire la gente, cercò di rianimarlo, bagnandogli la fronte con l’acqua di una sorgente, scuotendolo, parlandogli; ma l’uomo rimaneva inerte, come morto, e soltanto un lieve respiro che gli usciva dalle labbra indicava che l’anima non erasi ancora distaccata dal corpo. La Teresona, disperata nel vederlo così abbandonato, pensò che non poteva lasciarlo in quel luogo, e, curvatasi su di lui, se lo caricò sulle spalle fortissime e pian piano lo portò a casa. Però, sapendo che suo padre era molto avaro e che le avrebbe ordinato di riportare quell’infelice dove lo aveva trovato, invece di metterlo sul letto del sensale o sul suo, lo nascose in soffitta, facendogli alla meglio un letto con foglie di granturco, fieno e coperte. «Se si riavrà, - pensava, - gli darò di che proseguire il viaggio; se morirà, gli scaverò una fossa; ma abbandonare così quest’infelice, non posso.» Intanto lo sconosciuto non riprendeva conoscenza, per quanto Teresona gli stropicciasse le tempie e il naso con l’aceto, e cercasse di fargli trangugiare certo vino, che avrebbe rianimato un morto. L’ora del ritorno del padre si avvicinava, perciò Teresona chiuse a chiave la soffitta e, nonostante le rincrescesse di abbandonare l’infelice, scese in cucina a preparare la cena. Il sensale tornò a casa di cattivo umore; in quel giorno non aveva guadagnato un picciolo e, quando gli accadeva un fatto simile, se la prendeva per solito con la figliuola, che accusava di essere sprecona e di non sapere che cosa gli costasse a guadagnare tanto da tirare avanti la vita. Teresona non rispose, perché era una buona figliuola e lo lasciò sfogare quanto volle. Quando lo vide andare a letto e sentì che russava, si levò le scarpe, per non far rumore, e corse in soffitta a veder come stava lo sconosciuto; ma appena ebbe aperta la porta e, al lume della lucerna, ebbe veduto lo sconosciuto in piedi, mandò un grido e tremò da capo a piedi. - Chi m’ha portato qui? - domandò egli. - Io; - rispose umilmente la ragazza, - vi ho trovato svenuto nella selva e non ho voluto abbandonarvi. L’uomo, che aveva gettato uno sguardo di repulsione su quel mostro femmina, sentendo che ella lo aveva soccorso, vinse la ripugnanza che gl’ispirava e, avvicinandosi a lei, disse con voce dolcissima: - Vi sono grato di ciò che avete fatto per me; ma, per carità, non mi abbandonate. In seguito a gravi dolori ho dovuto fuggir da Firenze, e da molti giorni mi aggiro come una belva nei boschi. Sono stato còlto anche da questi lunghi, lunghissimi svenimenti; sono un infelice, soccorretemi! Teresona si sentì intenerire a quelle suppliche e, nonostante temesse l’ira del padre, pure promise allo sconosciuto che, se si contentava di stare in quella soffitta, lo avrebbe ricoverato e nutrito per alcuni giorni; e dopo esser riscesa a prendergli un po’ di minestra avanzata dalla cena e un tozzo di pane, lo rinchiuse di nuovo e se ne andò a letto. La mattina dopo il padre uscì al solito per i suoi traffichi, e Teresona, rimasta sola e sicura ormai che per tutto il giorno il padre non sarebbe tornato, invitò lo sconosciuto a scendere per respirare una boccata d’aria. Ma egli ricusò dicendo che si sentiva tanto spossato che non aveva neppure la forza di alzarsi dal giaciglio di foglie e di fieno. Allora Teresona, che era assuefatta a vedersi respinta da ognuno per la sua bruttezza, gli domandò molto umilmente se gli faceva dispiacere che rimanesse a fargli compagnia. - Mi fate un piacere, anzi, - le rispose lo sconosciuto. - Non potete credere come la simpatia di una creatura buona scenda dolce nel cuore dell’esule. Era la prima volta che qualcuno le parlava così affettuosamente, e Teresona fu tutta commossa. Ella prese la rôcca e si mise a filare in un cantuccio della soffitta, senza parlare, accostandosi soltanto allo sconosciuto per domandargli se voleva prendere ristoro. Per quel giorno il forestiero parlò poco, ma il giorno seguente incominciò a narrare a Teresona la sua triste storia e le disse che era un signore fiorentino della famiglia Spini, preso di mira dal partito che governava la città, per la opposizione fatta a certe leggi ingiuste che quel partito voleva imporre. Avvertito in tempo da un contadino che lo cercavano per arrestarlo, era fuggito a cavallo, ma senza nulla. Vagando però nel contado aveva saputo che avevano messo una taglia sulla sua persona, e che i suoi beni erano stati confiscati. Mentre parlava, il ricordo forse delle angustie patite lo fece cadere in un nuovo svenimento. Teresona, vedendo che il giorno incominciava a declinare e temendo che il padre tornasse, dovette lasciare messer Spini svenuto e correr giù a preparare la cena. La povera ragazza era più morta che viva, e mentre attizzava il fuoco, pregava la Madonna che rendesse almeno la salute a quell’infelice, così misero, così solo! Quella sera ella mise una quantità d’olio nella minestra di fagioli, si scordò di salare il castrato, e quando suo padre giunse, nulla era ancor pronto. Il sensale la rimproverò acerbamente e non volle mangiare altro che un pezzo di pecorino dicendo che da allora in poi voleva cenare all’osteria, e a lei non avrebbe lasciato altro che pane e pattona, perché non voleva andare in rovina per quella sprecona di figliuola. Difatti mise ad effetto la minaccia, e fattosi dar la chiave della dispensa, dove teneva la carne salata, il vino e l’olio, la ripose in un canterano dove teneva i quattrini. Teresona andò a letto piangendo. - Madonna Santa, - diceva la ragazza, - come farò a sostenere quell’infelice che è più morto che vivo? E con la testa sul guanciale pensava e ripensava, senza trovare un mezzo per uscire da quel bertabello. Intanto si struggeva di non potere andare in soffitta dal fiorentino a vedere se si era riavuto, perché suo padre, che era rimasto in cucina col fiasco davanti, continuava a brontolare e pareva non avesse nessuna voglia di andare a letto. Teresona era al buio, in preda alla desolazione, quando a un tratto vide dinanzi agli occhi un gran chiarore come se il sole penetrasse sfolgorante dalla finestra, e, in mezzo a quella luce vivissima, scòrse una vecchia dall’aspetto venerando, che si avvicinava a lei, senza che i piedi toccassero il pavimento. - Ragazza mia, - disse la vecchia con voce dolcissima, - la diletta Figlia mia, la Santissima Vergine, che ha pietà degli afflitti e ne raccoglie le preghiere, mi manda a te. Se tu vuoi salvare messer Spini, questa notte stessa devi portarlo via da questa casa. Domani tuo padre andrà a rovistare in soffitta, e se lo trova lo consegnerà alla giustizia come ladro. Rammentati che io sono sant’Anna... rammentalo! Dopo che la vecchia ebbe detto queste parole, la camera ritornò nelle tenebre e l’apparizione scomparve. Teresona lì per lì fu consolata, ma quando udì che il padre si mise a cantare in cucina con voce avvinazzata, disse fra sé: - Come farò a portare messer Spini fuori di casa, se il babbo non va a letto? Vergine Santa, aiutatemi voi! L’aiuto non le mancò, poiché poco dopo sentì un gran tonfo per terra e udì russare forte il vecchio sensale. Allora si vestì in fretta, senza mettersi le scarpe, e salita nella soffitta l’aprì. Messer Spini era sempre svenuto sul giaciglio. Ella cercò di destarlo, ma era fatica sprecata. Allora se lo caricò sulle spalle, e via, via, finché non lo ebbe deposto sopra un letto di musco a qualche distanza da casa. Però Teresona capì che, vestita da donna, sarebbe stata subito riconosciuta dalla gente, beffeggiata e vilipesa; perciò ella tornò a casa, si tagliò i capelli, si tolse le sue vesti, indossò i panni del babbo e via. Quando fu sulla soglia di casa ebbe un momento d’esitazione. Le dispiaceva di lasciar quell’uomo che, in fin de’ conti, era suo padre; quella casa dove aveva vissuto... e le pareva di far male ad andarsene; ma mentre stava così esitante, credé di udire una voce che le dicesse: - Tuo padre sarà contento di essersi liberato di te; non ti accorgi che non ti può soffrire? mentre l’altro ti vuol bene e ha bisogno del tuo aiuto. La voce era quella di sant’Anna, apparsale poco prima. Teresona non esitò più, e corse in cerca di messer Spini. Questi non era più immobile come Teresona lo aveva lasciato. Ma si dibatteva per terra e mandava gridi che somigliavano a urli di lupo affamato. - Madonna santa, ha il lupo mannaro! - esclamò la ragazza. E fece atto di fuggire; ma, vinta dalla compassione, si fermò, e, curvatasi sull’infelice, gli cinse la testa con le braccia poderose per impedirgli di ferirsi. Così rimase lungamente nel folto del bosco, sgomenta da quegli urli che potevano richiamar gente, sgomenta di non aver nessun mezzo per far cessare il male. A giorno, il malato si calmò; non urlava più, non si batteva più, e finalmente aprì gli occhi inebetiti. - Bisogna fuggire, - disse Teresona, - mio padre si desterà e si metterà a cercarmi; non bisogna che ci trovi qui. Messer Spini capiva poco quello che ella gli diceva, ma Teresona lo alzò da terra e, sorreggendolo, lo fece camminare in direzione del Pian di Campaldino. In mezzo alla vasta pianura sorgeva una casetta disabitata, dove la ragazza fece entrare l’infelice, e anche li trovò il modo di preparargli un letto di foglie e di fieno; ma come avrebbe fatto mai a nutrirlo? Peraltro Teresona era una ragazza coraggiosa, e le pareva che quegli abiti maschili che aveva indossati dovessero renderla irriconoscibile. Così, dopo aver raccomandato all’esule di non muoversi, andò fuori, sperando che le capitasse di guadagnar qualche cosa. Ma prima di uscire passò alcuni minuti in orazione e supplicò la Vergine Maria e sant’Anna di vegliare sul disgraziato fiorentino. La ragazza camminava alla ventura sulla via maestra in direzione di Poppi, quando le accadde di imbattersi in un grosso frate camaldolese, montato sopra un somaro. L’animale s’era impuntato e non voleva andare né avanti né addietro, e il monaco tirava la briglia, menava frustate; ma sì! era come dire al muro. Teresona, che era forte quanto un toro, prese il ciuco per la briglia e lo costrinse a camminare; ma appena lo lasciava, il ciuco impuntavasi di nuovo. - Giovinotto, - disse il monaco, - come vedi io son troppo pingue per far la strada a piedi e debbo trovarmi a Bibbiena prima di mezzogiorno: accompagnami fin là e ne avrai da me larga ricompensa. Teresona non se lo fece dir due volte, e seppe così bene costringer l’asino a camminare, che il monaco alle undici era già sulla piazza della Pieve. Egli scese di sella, e dopo aver messa una moneta d’argento in mano al suo accompagnatore, lo pregò di andarlo a riprendere il giorno dopo per accompagnarlo a Camaldoli, e gli avrebbe dato il triplo. La ragazza si sentì allargare il cuore, e dopo aver comprato a Bibbiena quello che occorreva per nutrire il malato e un pan tondo per sé, mangiando con grande appetito, tornò alla casetta del Pian di Campaldino. Il forestiero non era più così abbattuto come ella lo aveva lasciato, e le domandò come mai non si trovava più nella soffitta ed ella aveva preso abiti maschili. Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s’intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s’intenerì e sempre più prese affetto per quell’infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l’ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l’abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l’uva; il resto dell’anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l’uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all’uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d’altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l’uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all’infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s’ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l’opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant’Anna benedetta, non vi pare che quest’infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant’Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l’esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant’Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall’abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell’uva. L’abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l’acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l’ammirazione che ella gl’ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s’inginocchiò e pregò fervidamente sant’Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l’aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L’animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l’abate che sperava tanto nell’acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v’era qualche spirito forte che si accostava con l’intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l’esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d’industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all’esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d’impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l’abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all’uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo.

- E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c’era anche l’Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l’Annina e le aprisse l’animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell’ispettore. Dopo quell’abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L’Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell’animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell’orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c’erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l’Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l’aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s’è fermato qui di nuovo. - E com’era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l’Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L’Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.