Le novelle della nonna/Il teschio di Amalziabene

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Il teschio di Amalziabene

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Il teschio di Amalziabene

La domenica successiva era un tempo da lupi, una di quelle giornate in cui, come si suol dire, chi non ha casa la cerca; ma l’acqua, che veniva giù a torrenti, i fulmini, i lampi, non trattennero a casa la Vezzosa. Ella si gettò sulle spalle il cappotto di suo padre, aprì l’ombrellone d’incerato, e se n’andò al podere de’ Marcucci. Questi non aspettavano nessuno con quel tempo, e quando la videro giungere, l’accolsero ridendo e burlandola. - Guarda la bimba! Senza la novella non poteva andare a letto! La Vezzosa, come era suo solito, diventò in faccia come un tizzo di brace, ed evitando di guardare Cecco, che non aveva unito la sua voce a quella dei fratelli e delle cognate, rispose arditamente: - Sì, e che male c’è se le novelle mi piaccion tanto? Non val forse la pena di bagnarsi un po’ per venire ad ascoltare la Regina? La vecchia sorrise a quel complimento, e Maso, scherzando, disse alla ragazza: - Chi t’ha insegnato a esser tanto gentile? - Nessuno. Che si chiama gentilezza il dire la verità? - Via, par che tu abbia il cuor di zucchero! Eppure non eri così un tempo, e quando ti si dava il buon giorno rispondevi con le spallate. - Allora ero una bambina, e ora ho messo giudizio. - Via, Maso, lasciala in pace. Perché la punzecchi sempre? La Vezzosa è una brava e buona figliuola, e se le si chiede un piacere non si ricusa mai, - disse la Carola. - Non vedi che faccio per burla? - Sì, lo so, - rispose la Vezzosa, - ma mi pare che si perda tempo, e c’è la Regina che sta là ad aspettare che ci chetiamo per raccontare la novella. - Mamma, incominciate, - disse Cecco, che ci pativa a veder la Vezzosa alla berlina. La vecchia ripose in tasca il rosario e prese a dire:

- Quando il beato san Francesco morì, lasciò fra i suoi frati un certo Amalziabene, un mezzo santo anche lui, il quale, se non parlava ai pesci e agli uccelli e non domava le fiere come il poverello di Assisi, aveva però un cuore d’oro e si sentiva morire quando incontrava dei bisognosi e non li poteva aiutare. Questo frate Amalziabene, dopo la morte di san Francesco, se ne venne alla Verna, attratto dall’asprezza del luogo, nel quale gli pareva di potersi dedicare meglio alla penitenza che in Assisi. Quando giunse, il suo nome era già molto venerato, e i frati lo accolsero con ogni sorta di riguardi, meno che il frate cuoco, certo fra’ Gaudenzio, che non seppe dire altro che queste parole: - Padre guardiano è cresciuto un frate. Brodo lungo e seguitate! - volendo significare che non si sarebbe messa più carne in pentola per l’aumento di fra’ Amalziabene e per conseguenza la minestra sarebbe stata meno saporita che al solito. Bisogna sapere poi che questo fra’ Gaudenzio stava proprio in convento come un’anima nel purgatorio, perché lui non aveva nessuna vocazione di diventar santo; e, se non batteva il tacco e non buttava via la tonaca, era per evitare il capestro, perché a Firenze, dov’era nato e cresciuto, ne aveva fatta d’ogni erba un fascio, e non vedendo più scampo possibile, dopo di avere ucciso uno di casa Bardi, aveva passato la Consuma e s’era nascosto alla Verna sotto il saio del frate. Ma senza la paura di far quella morte sarebbe già passato in Romagna o in Val di Chiana per andarsene a Roma, non per divozione, ma perché in quella baraonda c’era più speranza di campar bene senza tanta fatica. Per suo gastigo il Padre guardiano prima di accettarlo fra i suoi frati zoccolanti, gli aveva domandato, vedendolo rozzo d’aspetto, che mestiere soleva fare. - L’ortolano no, il fornaio no, il falegname no, il pittore meno che mai; il muratore neppur per ombra, - aveva risposto il fiorentino. - Sai fare il cuoco, fratello? - Il cuoco sì, e son bravo! - esclamò Gaudenzio. - Della tua bravura non ce ne importa, fratello; - gli aveva detto il padre guardiano, - noi mangiamo frugalmente. Va’ in cucina, dove c’è un frate che soffre a stare al fuoco, e prepara tu il desinare. Fra’ Gaudenzio non se l’era fatto dir due volte, ed essendo infatti abilissimo nel cucinare, perché era un ghiottone e aveva fatto anche l’oste, preparò subito un pranzo squisito ai buoni frati, i quali gli fecero anche troppo onore, perché per il cuoco non ci rimasero altro che gli ossi. - Sei contento di me, Padre guardiano? - aveva domandato fra’ Gaudenzio. - Anche troppo, fratello mio; anzi, temo che tu solletichi il peccato della gola nei miei frati, - rispose il superiore. - Ho capito! - pensò fra’ Gaudenzio, - non bisogna avvezzarli troppo male. E da quel momento prese per sé il primo brodo e i pezzi scelti della carne nei giorni di grasso, e in quelli di magro si serbò i pesci migliori e i legumi più conditi. Però, nonostante che fra’ Gaudenzio si facesse la parte migliore, pure la sua cucina piaceva tanto ai frati, che in poco tempo, da quanto si nutrivano, ingrassarono tutti, e presero a volere un gran bene a quell’omaccione, che li faceva mangiare con tanto appetito. Così stavano le cose quando capitò alla Verna fra’ Amalziabene, e fu ricevuto dai frati con tutto il rispetto che meritava il discepolo caro a san Francesco. Giunse il frate di sera, e, poco dopo, la campanella suonò per la cena; ma appena fra’ Amalziabene ebbe gustato le vivande preparate da fra’ Gaudenzio, respinse il piatto e disse che cibi così delicati e così succolenti non si convenivano a’ frati, che avevano fatto voto di povertà e vivevano di elemosine. Aggiunse che se il poverello d’Assisi fosse capitato in quella casa e avesse veduto come mangiavano i suoi fratelli, si sarebbe coperto la faccia dalla vergogna e avrebbe pianto. Il Padre guardiano e i frati furono punti dal meritato rimprovero, e si pentirono di aver ceduto al peccato della gola. Fra’ Gaudenzio seppe tutto e ricevé ordine di non cucinare per otto giorni altro che minestra di ceci sull’acqua, e radicchio cotto in insalata. - Che c’è venuto a far quassù quel frate nemico delle consolazioni terrene? - brontolava fra’ Gaudenzio, e intanto i ceci brontolavano più di lui nel paiuolo. - Ci vuol ridurre tutti al lumicino; ma il primo a fare una fine brutta sarà lui. Con quel viso giallo ci vuol altro che ceci e radicchio! Ben presto nel convento si formarono due partiti; quello di fra’ Amalziabene era il più numeroso e si componeva di tutti i frati che avevano abbracciato la regola per fede del Santo fondatore e per desiderio di meritarsi il Paradiso, lasciando dietro a sé esempio al popolo; il partito di fra’ Gaudenzio si componeva di tutti quelli che s’eran fatti frati per nascondere qualche marachella e campare senza fatica, pacificamente. E questi, che si lagnavano dei digiuni e non la intendevano di esser ridotti a quel magro cibo cui li aveva costretti fra’ Amalziabene, armeggiavano fra di loro per fargli dispetti tali da costringerlo a ritornare al convento di Santa Maria degli Angioli ad Assisi. Questi malcontenti bazzicavano in cucina da fra’ Gaudenzio, e il fiorentino un giorno disse loro: - Sapete, fratelli; io ho pensato di legare un gatto in un sacco e di metterlo sotto la finestra di fra’ Amalziabene per impedirgli di dormire. - Ben trovata! - risposero i frati ridendo e stropicciandosi le mani. Infatti, mentre fra’ Amalziabene e gli altri frati erano in coro, fra’ Gaudenzio rinchiuse un gattaccio spelacchiato e rabbioso in un sacco, e attaccò questo a un chiodo fuori della finestra del frate. Dopo cena tutti andarono nelle celle, e fra’ Amalziabene incominciò a sentir miagolare. Si alzò, cercò per la cella e, non vedendo nessun gatto, si coricò; ma la musica non cessava e fra’ Amalziabene si levò per la seconda volta, aprì la finestra e si accòrse che il gatto era nel sacco. Con quella pietà che gl’ispiravano anche gli animali, egli tirò in casa il sacco, lo sciolse e vide la povera bestia impaurita. Se la prese in collo, l’accarezzò e le fe’ posto accanto a sé sotto le coltri. Il giorno dopo il gatto seguiva fra’ Amalziabene come avrebbe fatto un cagnolino, e fra’ Gaudenzio si mordeva le mani per avergli procurato una compagnia, invece che un tormento. La sera dopo, fra’ Gaudenzio, d’accordo coi congiurati, legò a’ piedi della roccia sulla quale era costruita la cella di fra’ Amalziabene, un ringhioso cane di un pastore che era ospitato dai frati. Questo cane abbaiò furiosamente tutta la notte e impedì al frate di dormire; ma egli, invece di muoverne rimprovero a qualcheduno, il giorno seguente disse: - Stanotte ho potuto lungamente pregare e ne ringrazio chi ha posto un cane sotto la mia finestra. Fra’ Gaudenzio si mordeva le mani. - Ma che cosa gli possiamo fare a questo frate per farlo fuggire? - domandava ai compagni. Ma questi si stringevano nelle spalle e intanto si arrabbiavano di mangiar sempre la stessa brodaglia di ceci per minestra, e la stessa insalata di radicchio cotto per pietanza. - Se non vuole andarsene vivo, lo farò portar via morto, - disse un giorno fra’ Gaudenzio. E, senza aggiunger altro, salito su di un certo abbaino del tetto, mentre gli altri frati erano a processione, camminò fin sulla cella di fra’ Amalziabene e, rimossi che ebbe alcuni tegoli ed embrici, scoperchiò in più punti il soffitto per modo che l’aria fredda potesse entrare nella camera. Poi discese e disse: - Fra’ Amalziabene è servito! Il giorno dopo, l’esile e scarno fraticello incominciò a tossire, e per una settimana si trascinò fuori della cella con la febbre addosso; ma poi non poté più levarsi, e in capo a pochi giorni spirò serenamente con gli occhi rivolti al cielo. I frati piangevano, fra’ Gaudenzio e i suoi partigiani si calarono il cappuccio sulla fronte e si finsero afflitti, ma invece eran tutti contenti che fra’ Amalziabene avesse tolto loro l’incomodo. Il giorno stesso della morte del suo nemico, fra’ Gaudenzio mise in pentola un pezzo di carne invece dei ceci, e il Padre guardiano, con la mente rivolta al morto, non se ne accòrse neppure. Passò qualche tempo, e fra’ Gaudenzio era contentissimo, perché il Padre guardiano non gli diceva nulla e lo lasciava spadroneggiare in cucina. Neppure i frati fiatavano, e rimettevano la collottola mangiando buone minestre e arrosti migliori. Un giorno, però, mentre eran tutti a refettorio, il Padre guardiano fece chiamare il cuoco. - Fratello, - gli disse, - hai forse fatto un patto col Diavolo per trascinarci tutti all’Inferno? - Perché? - domandò fra’ Gaudenzio. - Già quel santo frate Amalziabene ci rimproverò di aver ceduto alla gola e di trascurare i digiuni e le regole dell’Ordine, mangiando cibi grassi e ghiotti. Sparito lui da questa terra, tu hai ricominciato a cucinare cibi che non si convengono a chi vive di elemosine ed ha fatto voto di povertà. Stanotte, fra’ Amalziabene mi è apparso in sogno e mi ha rimproverato. Dunque, fratello, pensa di non espormi a nuovi rimproveri. Fra’ Gaudenzio tornò in cucina a capo basso, umile e contrito d’aspetto, ma fra i denti sfilava contro il morto una giaculatoria di bestemmie da far venir giù il convento. - Anche da morto mi perseguita, quel nemico del benestare; ma gliela voglio far io! - borbottava. Quel che voleva fargli non lo diceva. Aspettò che tutti dormissero nel convento, poi scese nel sotterraneo dove si collocavano i morti, e trovato il cadavere di fra’ Amalziabene già interamente spoglio della carne, ne prese il teschio, se lo portò nella cella e ve lo nascose. Il dì seguente fra’ Gaudenzio andò là dove scorre un limpidissimo ruscello e, lavato quel teschio con cura, vi tolse con un coltello tutte le ossa che formano il viso, così che il rimanente serbò la forma di un piccolo bacile; poscia egli ritornò alle sue pentole, e mentre per il convento cuoceva ceci e fagioli, fagioli e ceci, per sé si cucinava starne, lepri e tordi, ai quali aveva imparato a dar la caccia, e poi, per ispregio a fra’ Amalziabene, li mangiava nel suo teschio dicendo: - Senti che buon odore di cacciagione! Vuoi favorire? Senza complimenti! La cosa durò per alcuni giorni, e fra’ Gaudenzio era tutto felice di far quello spregio al suo nemico e di aver trovato mezzo che tutti facessero astinenza, meno che lui, quando una mattina, che è, che non è, il Padre guardiano adunò tutti i frati, anche quelli addetti alla foresteria e alla cucina, e disse: - Fratelli, qui si commette un sacrilegio. Mi è apparso il poverello d’Assisi, col viso lacrimante, e mi ha detto: «Fra’ Bonifacio, non permettere che nel luogo dove Gesù mi dette le sue stimmate, si profani una cosa sacra». Dopo questo avvertimento, fratelli, io vi ho adunati. Chi di voi è colpevole si accusi. I frati rimasero tutti a testa china e nessuno di essi si alzò a dire: «Il colpevole sono io!». E poiché nessuno parlava, il Padre guardiano aggiunse: - Se il colpevole non ha coraggio di accusarsi, cessi almeno dal peccare. Fratelli, preghiamo per lui! A quell’invito, tutti congiunsero le mani sul petto, tutti chiusero le palpebre in segno di raccoglimento e tutti pregarono, anche i partigiani di fra’ Gaudenzio, tutti insomma, meno che lui. Dopo, la radunanza si sciolse e ognuno tornò alle proprie occupazioni, compreso fra’ Gaudenzio, che aveva nascoste certe starne in un panierino per accorrere alla chiamata del superiore, e temeva che il gatto gliele rubasse. Ma nonostante le preghiere dei frati, fra’ Gaudenzio continuò a servirsi del teschio del morto come di una scodella, e a ogni boccone ghiotto ripeteva il sacrilego detto: - Senti che buon odore di cacciagione! Vuoi favorire? Senza complimenti! Passarono così altri otto giorni senza che accadesse nulla di nuovo nel convento, quando una sera fra’ Gaudenzio, entrando nella sua cella, udì un gran trambusto e vide il teschio che ruzzolava sul pavimento. - È pien di topi! - disse. E preso il teschio lo ripose nel nascondiglio e si coricò. Ma era appena entrato a letto, che gli convenne rialzarsi, e credendo che fossero i topi che facevano quel rumore, disse: - Ora vi servo io! Ma avea un bel dire che li avrebbe serviti: egli era al buio, e, prima che avesse battuto l’acciarino per accendere il lume, il rumore continuava e fra’ Gaudenzio si sentiva ora addentare un piede, ora tirar per la tonaca, ora mordere il naso. - Che topi impertinenti! - ripeteva, - or ora vi servo io! Ma per quanto facesse non riusciva ad accendere il lume, e i topi intanto pareva che si moltiplicassero in un battibaleno, perché lo addentavano in ogni parte del corpo e non era a tempo a impedire i morsi e gli sgraffi. Mentre egli si lamentava dal dolore e, scoraggiato, aveva cessato i tentativi per accendere la lucernina, vide a un tratto nella sua cella un gran chiarore, che partiva dall’alto. Alzati gli occhi, scòrse un’apertura nel tetto, e, affacciato a questa, un mostro con la faccia di drago e la gola di fuoco da cui cadevano a migliaia certi Diavoletti piccoli, neri e pelosi, con i denti lunghi e le granfie aguzze e che fra’ Gaudenzio aveva presi per topi. Benché fosse un gran burlone e non avesse paura né di Cristo né del Diavolo, pure in quel momento fra’ Gaudenzio non ebbe coraggio di far bravate e disse soltanto: «È finita!». - No, - gli rispose il mostro, cessando un momento di vomitare Diavoletti, - non è punto finita, purché tu mi consegni il teschio di fra’ Amalziabene, che nella tua cella non è ben custodito. - Prendilo pure, - rispose il frate. I Diavoletti pareva che non aspettassero altro che quel permesso per portarlo su. Lo addentarono in cento, poi spiegaron le ali e in un momento il teschio fu consegnato al mostro, il quale, prima di sparire, disse: - Tu mi rendi con questo dono un segnalato servigio, perché mi aiuti a fare un gran dispetto a quel Francesco d’Assisi, che quasi quasi mi ha portato via più anime del Nazzareno stesso. Che cosa vuoi in compenso? - Sanità, lunga vita e un buon arrosto tutti i giorni. - E poi? - Nulla; quando dovrò morire portami pure all’Inferno, purché non ci sia fra’ Amalziabene né altri che predichi di mangiar ceci e radicchio. I Diavoletti apriron l’ali ed uscirono tutti dall’apertura del tetto, lasciando nella cella un puzzo di zolfo così forte che fra’ Gaudenzio dovette spalancare le imposte della finestra per non morir soffocato. Quell’apparizione del Diavolo in persona e di tutti i Diavoletti, non gl’impedì poco dopo di dormire saporitamente, né di sognar l’arrosto, che si era assicurato vita naturale durante. Però la mattina dopo ebbe una chiamata che gli fece arricciare il naso. Un novizio andò in cucina a dirgli che il Padre guardiano lo aspettava. - Che vorrà? - diceva fra se stesso fra’ Gaudenzio, prendendo un aspetto umile per presentarsi al superiore. - Qui gatta ci cova! Fra’ Bonifacio lo attendeva ritto in una stanzetta attigua al refettorio, e appena lo vide lo squadrò da capo a piedi come farebbe un giudice. - Fra’ Gaudenzio, chi non può mentire né sbagliare mi ha detto che tu hai commesso un sacrilegio; dov’è il teschio del glorioso fra’ Amalziabene? Allorché Iddio domandò a Caino che cosa aveva fatto del fratel suo Abele, il fratricida non ebbe maggiore spavento che fra’ Gaudenzio quando si sentì fare quella domanda a bruciapelo dal suo superiore. Tremò, impallidì e non ebbe fiato di rispondere. - Dico a te, fratello, - ribatté il Padre guardiano in tono fermo. - Sono forse un becchino, io, Padre reverendo? Non mi muovo mai dal focolare e non bazzico certo nelle tombe! - rispose fra’ Gaudenzio dopo un momento. - Le tue parole non significano nulla. Io ti ho rivolto una domanda precisa, perché il tuo sacrilegio mi è noto, e voglio da te risposta eguale. - Io non posso darvene, Padre reverendo, perché non so nulla. - Ebbene, va’ nella tua cella e medita sul tuo peccato. Da qui a tre giorni, se non mi avrai detto dov’è il teschio del glorioso fra’ Amalziabene, tu sarai cacciato dal convento. - Faccio la santa ubbidienza; ma dopo tre giorni, Padre reverendo, vi darò la stessa risposta d’oggi; e intanto, chi cucinerà per il convento? - Non ci pensare; rifletti piuttosto sul tuo peccato e pèntiti. Dopo la fondazione dell’Ordine nessun frate ha meritato la pena che san Francesco stesso, apparsomi in chiesa, mi ha imposto di darti per servire d’esempio agli altri. Fra’ Gaudenzio non fiatò, e appena fu nella sua cella incominciò a tremare e piangere, dicendo: - Diavolo, rendimi il teschio di fra’ Amalziabene; rendimelo, te ne supplico, te ne scongiuro! Ma il Diavolo non gli rispondeva, e fra’ Gaudenzio continuava a piangere come una vite tagliata. Era sgomentato dalla punizione di esser cacciato dal convento e di dover andar ramingo per il mondo, e forse morir sulla forca. In convento ci stava al sicuro, e ora cosa sarebbe accaduto di lui? - Povero me! - ripeteva. E intanto si faceva notte e nessuno si rammentava che egli non aveva mangiato dalla sera avanti. Per i frati era un reprobo, un dannato al quale nessuno osava più accostarsi. Quando sul grande bosco di abeti e cipressi che circonda la Verna furono scese le tenebre, fra’ Gaudenzio cadde stanco di sonno e di fame sullo strapunto; ma appena ebbe chiusi gli occhi vide un gran chiarore e, alzando lo sguardo al soffitto, scòrse il drago con la gola di fuoco. - Eccoti l’arrosto, fra’ Gaudenzio, - disse il Diavolo lasciandogli cadere accanto un porcellin di latte, di un bel color d’oro, cotto a puntino, e che faceva gola soltanto a vederlo. - Non ne voglio del tuo arrosto, Satana. Mi hai da rendere il teschio di fra’ Amalziabene, se no son rovinato. Il Diavolo fece una risataccia e sparì. L’odore che tramandava il porcellin di latte era tanto appetitoso, e la fame di fra’ Gaudenzio era così grande, che, senza pensare ad altro, staccò una coscina e la mangiò, e dopo quella le altre tre e poi la schiena, la testa; insomma, a farla breve, in capo a un’ora, dell’arrosto del Diavolo non ci restavano altro che gli ossi, e quelli li mangiò un gatto, che aveva gli occhi che facevan lume, e che era entrato nella cella senz’aprir l’uscio. Ma appena fra’ Gaudenzio ebbe nello stomaco il cibo preparato nell’Inferno, svanì ogni timore della pena promessagli dal Padre guardiano, e provò molta contentezza per avere fatto lo spregio al teschio di fra’ Amalziabene. - Son contento, - diceva stropicciandosi le mani. - Così quel frate giallo quando sentirà sonare la tromba del Giudizio Finale, si dovrà arrabattare per ritrovare il suo teschio; e se non va all’Inferno a cercarlo, resterà senza! Dopo aver fatto quella buona cena, fra’ Gaudenzio si riaddormentò, e la mattina, nel destarsi, provò desiderio che il termine assegnatogli dal Padre guardiano giungesse presto. - Ieri, - diceva, - sono rimasto davanti a lui tutto impappinato; ma quando m’interrogherà gli saprò rispondere a tono, e se mi vuol cacciare dal convento, tanto meglio: l’arrosto me lo sono assicurato, e a procacciarsi il pane non ci vuol gran fatica. La sera, alla solit’ora, si spalancò di nuovo il soffitto, e il Diavolo con la testa di drago gli disse: - Buona sera, fra’ Gaudenzio. - Buona sera. Tienlo pure quel teschio di frate, io non so che farmene, - disse il cuoco. - Mi fa piacere che tu abbia messo giudizio, - replicò il Diavolo. - Tanto quel teschio non te lo rendevo né con le buone né con le cattive. La sera, quando siamo tutti a cena nell’Inferno, ci versiamo il vino che , in quel boccale, acquista un sapore squisito. Mangia, fra’ Gaudenzio, e non ti far cattivo sangue. Nel dir così lasciò cadere nella cella una bella lombata di vitella, cotta a puntino, che mandava un odore capace di risuscitare un morto; poi sparì. Fra’ Gaudenzio pensò che quell’arrosto sarebbe stato anche migliore mangiato con un pezzo di pane e annaffiato da un fiasco di vin vecchio, e sapendo che a quell’ora tutti i fratelli dormivan la grossa, andò in dispensa, prese il pane, e poi scese in cantina e prese un fiasco di quel vino che serbavano per dir la messa. Ritornato in cella mangiò l’arrosto fin all’osso, e questo lo dette al solito gatto con gli occhi che facevan lume, e dopo aver veduto il fondo del fiasco, si coricò e dormì come un ghiro. Il giorno dopo si destò tardi, svegliato dal rumore del tuono. Si alzò e stava al buio, non osando aprire le imposte di legno, quando sentì avvicinarsi gente all’uscio della cella e bussare. Fra’ Gaudenzio, che aveva messo il paletto, disse fra sé: - Per due giorni mi hanno dimenticato, e se avessi aspettato la loro carità, sarei morto di fame; se ora si rammentano di me, vuol dire che mi preparan qualche brutto tiro; tutto sommato è meglio lasciarli bussare. Il rumore continuo del tuono rintronava tutta la cella, e i bagliori dei lampi la illuminavano ogni momento; ma fra’ Gaudenzio non aveva paura e gongolava, sentendo che di fuori continuavano a bussare all’uscio. Finalmente si fece udir la voce di fra’ Bonifacio, non più imperiosa come due giorni prima, ma supplichevole. - Apri, fra’ Gaudenzio, per l’amor di Dio! - Padre reverendo, - rispose il frate facendo la voce debole, - son due giorni che non ho preso cibo, e non ho forza di scender dal letto. - Dimmi, fra’ Gaudenzio, dove hai nascosto il teschio di fra’ Amalziabene. Non senti che il Cielo si scatena contro il convento perché accoglie un sacrilego? - Non sento nulla, - disse il frate ridendo. - Fra’ Gaudenzio, non ti ostinare nel diniego. Già tre fulmini sono caduti sulla casa, ma per fortuna nessun fratello è morto. Dimmi dov’è il teschio! Fra’ Gaudenzio si ricordò di aver veduto un teschio in un sotterraneo della chiesa di San Salvadore, che era in Valle Santa, e rispose a fra’ Bonifacio: - Giacché son vicino a morte, voglio confessare il mio fallo; il teschio di fra’ Amalziabene lo portai nel sotterraneo di San Salvadore, per avere una reliquia del nostro glorioso fratello. Fra’ Bonifacio, appena ebbe udito questo, s’incamminò salmodiando, sotto la pioggia battente, alla testa dei suoi frati, verso la detta chiesa, e, trovato il teschio nel luogo indicato dal cuoco, lo sollevò da terra con grande venerazione e lo portò con le sue mani nella tomba di fra’ Amalziabene. Il temporale cessò, e fra’ Bonifacio pensava qual punizione infliggere al cuoco, quando un frate andò di corsa ad avvertirlo che il lato del convento dove era la cella di fra’ Gaudenzio ardeva, probabilmente per la caduta di un fulmine. Il Padre guardiano dimenticò in quell’istante tutto il giusto risentimento che nutriva verso fra’ Gaudenzio, e direttosi alla cella di lui, bussò forte all’uscio, dicendogli: - Fratello, fa’ uno sforzo e apri; le fiamme salgono sulla tua cella. - Lasciale salire, Padre reverendo, io non ho forza di muovermi. Allora di fuori i frati si diedero ad urtare con pali contro l’uscio per abbatterlo; e fra’ Gaudenzio, che non vedeva le fiamme, rideva, sentendo che si affannavan tanto per salvarlo mentre non correva nessun pericolo. Batti e batti, l’uscio alfine cedé, e quando i frati stavano per penetrare nella cella, videro il Diavolo con la testa di drago e la gola di brace, che stava nel vano a impedire loro il passaggio. Essi fuggirono spaventati, e in un momento le pareti della cella crollarono con gran fracasso e attorno al letto su cui giaceva fra’ Gaudenzio, si formò come una fornace ardente; le fiamme salivano dal pavimento, penetravano dalle stanze vicine e già il frate si sentiva ardere i capelli e la barba e scottare le carni. - È questa la lunga vita che mi hai promesso? - diss’egli al Diavolo in tono di rimprovero. - Se ti preme la vita, te la concedo eterna, - rispose Satana. - Ma l’arrosto? - domandò fra’ Gaudenzio. - L’avrai tutti i giorni. - Allora son tuo. Appena fra’ Gaudenzio ebbe detto queste parole, si sentì sollevato dal mostro dalla faccia di drago e dai Diavoletti, i quali formarono sotto a lui come una nube densa, e dopo averlo spinto sopra al tetto, lo trascinarono in un burrone profondo, che si spalancò per inghiottirlo. Il convento continuò a ardere dal lato della cella di fra’ Gaudenzio, e i frati, che si erano tutti rifugiati in chiesa a pregare, e non avevan veduto come egli fosse stato portato via, credettero che avesse trovato la morte nelle fiamme. Però capirono che fra’ Gaudenzio, prima di morire, aveva ingannato il Padre guardiano, perché il teschio portato in processione nella tomba di lui, fu trovato il giorno dopo sul praticello dinanzi alla cappella degli Angioli, e per quante volte lo collocarono accanto alla salma di fra’ Amalziabene, per altrettante lo trovarono or qua or là, ma mai al posto ove lo mettevano. E qui la novella è finita.

Intanto il temporale era cessato e la Vezzosa staccava già, dal chiodo cui l’aveva appeso, il cappotto del babbo, per tornarsene a casa, quando Maso le disse: - Aspetta che ti accompagnamo; due passi non ci faranno male; e poi ho da dire una cosa a tuo padre. Un istante dopo tutti i Marcucci erano fuori con la Vezzosa, la quale, accostatasi a Cecco, gli disse: - Sentite, Cecco, ho da chiedervi un favore. - Dite pure. - Me lo potete lasciare per qualche giorno quel libro di Silvio Pellico? l’ho letto già ma non so staccarmene, e mentre mi fa piangere, mi pare che mi renda più buona e m’insegni a esser tollerante, e sapete se della tolleranza ne ho bisogno! - Tenetelo pure per sempre, - rispose il giovane. - Ma ad un patto. - Quale? - Che nel leggerlo pensiate a chi l’ha tanto letto prima di voi e ve l’ha dato. - Non dubitate, - rispose la Vezzosa. E siccome era giunta a casa sua, lasciò i Marcucci a parlare col babbo e corse in camera.