Il tesoro della Montagna Azzurra/XX - Alla caccia di Ramirez

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XX — Alla caccia di Ramirez

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XX — Alla caccia di Ramirez


Fu una notte piena di angoscia quella che trascorsero don José, Pedro e Reton. Il primo non aveva fatto altro che camminare, come una belva, intorno alla capanna, imprecando; don Pedro, non aveva smesso di singhiozzare e Reton di darsi dei pugni, accusandosi d'essere stato lui la causa di quel disastro. I kahoa, inquieti per la mancanza di notizie dei due kanaki e impressionati per il dolore e la collera che traspariva dal viso del loro capo, avevano mandato degli esploratori in tutte le direzioni, senza però alcun successo. Anche la giornata passò in crescenti ansie senza notizie. Il capitano, che non riusciva a frenare la sua impazienza, impressionato anche dalla crescente disperazione di don Pedro, si preparava a chiamare a raccolta tutti i guerrieri della tribù, deciso a tentare un colpo di mano sui villaggi dei nuku, quando dei sonori latrati lo avvertirono del ritorno dei due kanaki. Don José, don Pedro e Reton si erano precipitati fuori dalla capanna senza curarsi della pioggia che scrosciava sempre.

— Finalmente! — esclamò il capitano raggiante. — Se torna Hermosa, ci saranno anche Matemate e Koturé.

Non si era ingannato. Pochi minuti dopo, i due bravi kanaki, grondanti d'acqua e inzaccherati fino ai capelli, si presentavano agli uomini bianchi.

— Entrate subito, — disse il capitano, facendo segno ai kahoa che avevano seguiti i due esploratori, di ritirarsi.

Matemate e Koturé che tremavano per il freddo ed erano stanchissimi, si sedettero davanti al fuoco che ardeva in mezzo alla capanna.

— Parla, — disse don José a Matemate.

— Partiti tutti.

— Chi?

— I nuku.

— Tutti!

— Abbiamo visto i loro villaggi distrutti dal fuoco.

— E la fanciulla bianca?

— Partita con l'uomo bianco.

— Chi te lo ha detto?

— Una vecchia nuku che era stata abbandonata in una capanna, perché aveva le gambe troppo gonfie per poter seguire i suoi compatrioti.

— Perché non me l'hai portata qui? Ci avrebbe dato delle preziose informazioni — disse don José.

— Quando non ha saputo dirmi altro l'ho uccisa, — rispose il kanako candidamente. — I nuku sono nostri nemici.

— Hai almeno saputo dove si sono diretti?

— Sì, alla foce del Diao.

— Per risalire il fiume con le scialuppe del grande canotto che ha l'uomo bianco?

— Questo non lo so, capo.

— Tu sei ben certo che la fanciulla bianca era con loro?

— Quella vecchia me lo ha confermato.

— E quando sono partiti?

— Ieri, subito dopo scoperta la nostra fuga.

— Tu sapresti condurci alla foce del Diao?

— Sì, capo, — rispose Matemate.

— Se fosse possibile seguirli!

— E perché no? Non hai tu la tua grossa bestia? Aveva già scoperto le tracce non so se dei Nuku o dell'uomo bianco e cercava di seguirle.

— Io non avevo pensato a questo, — disse don José. — Hermosa è stata due mesi con quel bandito e saprà ritrovarlo.

Riassunse le risposte ricevute dal kanako e informò don Pedro di quanto aveva appreso.

— Non vi disperate, amico, — disse, vedendo il povero giovane profondamente addolorato. — Noi daremo la caccia a quel bandito e lo raggiungeremo prima che metta le mani anche sul tesoro della Montagna Azzurra. I kahoa sono abbastanza numerosi e guidati da noi non esiteranno a dare battaglia ai nuku.

— Ma che cosa vuol fare quel miserabile di mia sorella?

— Vorrà servirsene come di un prezioso ostaggio.

— E se la uccidesse? — chiese il povero giovane con le lacrime agli occhi.

— Per quale motivo? Ramirez sarà un furfante, sarà un ladro, sarà tutto quello che volete, ma non si scorderà che è un uomo bianco prima di tutto, abbia pur nelle vene del sangue indiano, come si dice. Egli non dimenticherà che ci siamo sempre noi pronti a vendicare vostra sorella. Se è partito così precipitosamente vuol dire che non crede alla nostra morte e che cerca di arrivare nei villaggi dei krahoa prima di noi.

— E dove andremo?

— Alla foce del Diao, dove cercherò di giocare a quel birbante un tiro che medito da parecchio tempo. È necessario, prima di tutto, impedirgli di tornare nel Cile.

— E come?

— Privandolo della sua nave.

— Vorreste assalirla?

— Lasciate fare a me, don Pedro. Sarà una guerra a coltello contro quel bandito e vedrete che non sarà lui che vincerà la partita. Matemate e Koturé varranno tanto oro quanto pesano.

La notte stessa don José, radunava nella capanna reale tutti i capi dei villaggi e i più celebri guerrieri per preparare la spedizione. Nessuna opposizione fu fatta alla volontà del capo bianco. I kahoa con tre uomini bianchi alla testa, armati delle canne che tuonavano, si ritenevano più che certi d'infliggere ai loro avversari una tremenda sconfitta. La notte fu occupata nella scelta dei guerrieri e nella raccolta delle provviste, dovendosi attraversare territori privi di qualsiasi risorsa, poiché la Nuova Caledonia è poverissima di selvaggina. Prima dello spuntare del giorno la colonna si mise in marcia. Si componeva di un centinaio di coraggiosi guerrieri, tinti di nero, con una miscela di grasso di maiale e di fuliggine. Ogni uomo era stato fornito d'un pacco pieno di popoi, l'unico cibo che resiste per qualche tempo all'umidità e anche al calore. Don José, Reton, don Pedro con i due kanaki e la cagna di Terranova avevano formato un drappello d'avanguardia. Alla sera la colonna, che aveva marciato con rapidità attraverso le foreste, arrivava sul luogo dove avrebbero dovuto esserci i villaggi dei nuku. Non rimaneva in piedi nemmeno una capanna. La tribù prima di seguire il capo bianco e certamente per suo ordine, aveva tutto distrutto con il fuoco. Non si vedevano che ammassi di cenere e qualche pezzo di tetto. Perfino le piantagioni di ignami e di magnagne, che circondano ordinariamente i centri abitati, non esistevano più. Sembrava che un formidabile esercito nemico fosse piombato sulla tribù, tutto distruggendo nella sua terribile marcia.

— Perché Ramirez ha voluto questa rovina? — chiese don Pedro al capitano.

— Credo di indovinare la sua idea, — rispose don José. — Vorrà condurre i nuku presso i krahoa e formare una sola e potente tribù per tenerci in scacco.

— Se riuscisse, a noi non rimarrebbe che fuggire.

— Adagio, don Pedro, — soggiunse il capitano. — Matemate e Koturé sono sempre con noi e sanno che il figlio del gran capo bianco non è quel furfante di Ramirez. Accampiamoci qui questa notte e non pensiamo che a riposarci. Sono già parecchie notti che non facciamo una buona dormita.

Fu improvvisato un campo, circondandolo di una piccola siepe di spine. Per il capitano e per i suoi compagni fu eretta alla meglio una piccola capanna con larghe strisce di niaulis poggiate su bastoni intrecciati, per ripararli dall'umidità della notte, non essendosi il cielo ancora rasserenato. La pioggia era cessata, ma non il vento, che ululava sinistramente nell'immensa foresta. Divorata la magra cena e disposte all'intorno numerose sentinelle, don José, don Pedro e Reton si rifugiarono nel loro misero abituro, mentre i kahoa si sdraiarono sotto gli alberi contentandosi d'una semplice stuoia e di un pezzo di corteccia di niaulis destinato a riparare la testa. Ai primi albori la colonna riprendeva la marcia, avanzando rapidamente fra quegli interminabili boschi. Hermosa seguiva, senza esitare, le tracce visibilissime del suo secondo padrone. A mezzogiorno la colonna arrivava in un accampamento improvvisato, dove si ergevano ancora tre o quattro capannucce formate di cortecce di niaulis. C'erano molti mucchi di cenere e di rami carbonizzati, segno evidente che don Ramirez aveva fatto una sosta insieme alla tribù.

— Hanno passato la notte qui — disse il capitano a don Pedro e a Reton.

— La scorsa notte o la precedente? — chiese il giovane cileno.

— Ecco quello che è impossibile sapere. Le ceneri sono fredde, — rispose don José. — Sono però fermamente convinto che non abbiano su di noi un grande vantaggio.

— Se li raggiungeremo, daremo loro battaglia?

— Tenteremo un assalto di sorpresa, don Pedro, — rispose il capitano. — Mi sembra che i nostri kahoa siano ben risoluti a vendicare la sconfitta subita.

— Frughiamo le capanne, — disse in quel momento Reton, che sembrava fosse tormentato da qualche pensiero.

— Che cosa speri, bosmano? — chiese don José.

— Chi lo sa? — rispose il lupo di mare. — La señorita è furba e potrebbe aver lasciato qualcosa per noi.

— Uhm! — fece il capitano.

— Il bosmano ha ragione, — disse don Pedro. — Mia sorella immaginerà che noi, liberi, non l'avremmo abbandonata al suo destino.

— Se l'avranno informata della nostra evasione! Quel bandito non sarà stato così sciocco... Tuttavia cerchiamo.

Perlustrarono dapprima l'accampamento, poi le capanne, non trovando altro che una piccola provvista di pagute, che sono pallottoline di terra verdastra, composte di silicato di magnesio, che i neo-caledoni mangiano volentieri quando non hanno altro di meglio. Stavano per rinunciare alle loro ricerche, quando il bosmano, che era il più accanito, quasi obbedisse a un segreto istinto, nel sollevare una vecchia stuoia, fece saltare fuori un pezzo di scorza di melalenco dove erano tracciate grossolanamente delle lettere.

— Che cos'è questo? — gridò. — E poi dicono che i vecchi diventano imbecilli e che...

Una imprecazione sfuggitagli, gli interruppe la frase.

— Emanuel!... Miserabile!... Non l'hanno ancora divorato quello squalo del malanno!... È pure il suo nome questo!... Guardate, capitano.

Il vecchio lupo di mare aveva dato a don José quel pezzo di corteccia, largo e lungo appena come un foglio di carta da lettere comune, su cui erano tracciate delle parole.

— Emanuel!... — esclamò a sua volta il capitano. — Che cosa vuole quel mariolo?

Osservò attentamente il pezzo di scorza e dopo un lungo esame lesse:

«Marciamo verso il Diao con la tribù. Veglio su Mina».

«Emanuel».

— Lui veglia sulla señorita!... — esclamò Reton. — Quella canaglia si permette questo? Quel cane ci burla!... Quando verrà il giorno che potrò fracassargli le costole?

— Adagio, Reton, — disse don Pedro, che era in preda a una vivissima gioia. — Noi non abbiamo mai avuto delle prove positive che quel mozzo ci tradisse. Perché avrebbe scritto questo se non proteggesse veramente mia sorella?

— Quel gaglioffo!... — urlò l'irascibile bosmano. — Come vuole proteggerla?

— Taci, Reton, — disse il capitano — e non perdere le staffe. Anche un ragazzo, in certi momenti, può fare ciò che non potrebbe fare un uomo maturo. Quell'Emanuel non è uno stupido, anzi io l'ho conosciuto per un vero demonio. Se ha lasciato qui questa scorza di melalenco vuol dire che realmente veglia sulla señorita.

— Uhm!... — fece il bosmano scuotendo il capo. — Io avrei paura di quella protezione, parola di Reton. E poi chi si fiderebbe di quel traditore?

— L'abbiamo chiamato così noi, perché Ramirez lo ha risparmiato, nient'altro, — rispose don Pedro. — D'altronde fosse anche vero che prima quel ragazzo, chissà per quale scopo a noi ignoto, cercava di farci del male, preferisco sapere mia sorella sotto la protezione d'un marinaio dell'Andalusia, piuttosto di qualunque altra persona.

— Sia pure, — disse Reton, che non voleva arrendersi. — Vedremo se quella canaglia la proteggerà davvero. La Nuova Caledonia non è poi vasta come l'America del Sud e saprò scovarlo. Guai a lui se avrà alzato un solo dito contro la señorita Mina! Lo farò a pezzi!

— Accontentiamoci di sapere che vostra sorella è sempre insieme a Ramirez e che qualcuno, sia pure un furfante, veglia su di lei, — soggiunse il capitano. — Vedremo se troveremo qualche altro scritto nell'accampamento che raggiungeremo. Facciamo colazione, se è possibile, poi in marcia.