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L'Altrieri/E qui mi fermo

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E qui mi fermo

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Con... L'Altrieri


L’ora è tarda e i mièi ricordi, pòveri vecchi! son stanchi. Essi comìnciano a ciondolare del capo, a palpeggiar le palpebre, a sbadigliare; essi tèndono a poco a poco a riaddormentarsi in un cantone del mio cervello. Làh! buona notte, carìssimi.

Dunque, vero? potremmo parlar del presente... Ma no. Le gioje e i dolori dell’oggi intòrbidano troppo ancora le aque: lasciamo che pòsino... poi...

Pure, sappiate che, proprio in questo momento, tròvomi nella più gentile, nella più còmoda saletta del mondo. Qui avvampa, crèpita un vivìssimo fuoco e, dinanzi gli alari, barbuglia un fuliginoso ramino; quì, un vassojo con tazze di porcellana azzurra, sullo scodelletto di cui stàccano i pìccoli cucchiài d’argento – insieme alla lucente còcoma del tè, ad una zuccheriera, ad una coppa di panna ed un buon tondo di panettone a fette – ci attende.

A destra del camino, s’impoltrona poi mio padre; egli ascolta colla sua aria bonaccia Giorgio, il quale, accavalciàtogli un ginocchio, si sfoga a contargli le negligenze e le cattiverie del signor maestro di scuola: a manca, sièdono quelle due care ànime nella pupilla di cui, bevo, tratto tratto, le idèe. La prima è una donna di mezza età, pàllida, colla capigliatura nera, liscia, e con lo sguardo accarezzante: l’altra, una fanciulla di quatòrdici anni, dai capelli crespi, come spolverizzati di oro e dagli occhi vispìssimi; quella, la quale avvolge del filo su ‘n dipanino, è mia mamma; questa (che, con le mani distese e la matassa allargata, le serve da guìndolo) mia... Una mia cugina.

A rivederci.


Milano, 1868.