L'Altrieri/Panche di scuola/III

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Panche di scuola – III

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Panche di scuola - II Panche di scuola - IV


Senonchè, il direttore imponèndomi la sua pesante mano càrica di anelli, si era pigliata possessione di mè.

– N’è vero? – domandò egli nel rimorchiarmi in casa – noi, siamo già amiconi... Vostro padre mi dice che voi imparaste poco più di niente... Ebbene, risponderemo, tanto meglio! Ad una torre di pòrfido, da costruirsi, non sèrvono fondamenti in stracchino. I fondamenti, cacciàtevelo in testa, sono il capo essenziale... Certo, lo si capisce a occhio, voi siete un buon bimbo... Le scappatelle non mèttono conto. Dunque, lasciate fare al tempo e a noi... Noi, dal signor contino Guido Etelredi caveremo fuori qualchecosa di... di bello; ne caveremo un, un... – e, con quel bocchino che mòstrano i bachi da seta guardàndosi attorno, cercò il che cosa per l’aria. Pur non trovando: – Che porta! – riattaccò con un’alzata di spalle. – Voi, Etelredi, avete anche il diritto di non far nulla... Siete ricco, voi – e sospirò. – Lo potess’io! –

E quì un secondo trombamento di fiato. Impensierì, o parve; poi, scuotèndosi come per cacciare una mosca importuna:

– Intrattanto – disse – andiamo alla vostra scuola. Non per studiare, ora: per assueffarci al suo ambiente. –

E fummo alla III CLASSE.

Ivi, il più chiuso silenzio. È vero che nel toccare la soglia del corritojo che vi menava, èrami sembrato uscirne una chiuccurlaja, un pestìo, ma, chi non lo sa? pòssono suonare gli orecchi: anzi – suonàvanmi – inquantochè il direttore continuò il suo passo con la prima e greve misura da catapulta e inquantochè – aperto l’uscio – demmo in una così severa, orgogliosa àula che ne intirizzivan le lingue. Io, machinalmente, mi bottonài.

La sala era ampia, a volta, con una canna di stufa, che, innalzàtasi a zigzag, la traversava, e, dalle pareti a sola rinzaffatura; quella di faccia a noi, bucata da tre finestre; l’altra, alla dritta, con suvvi una gran carta d’Europa di poche parole (pei negligenti, muta); la terza infine, con una mènsola di falso marmo, che riguardava il mezzo della corsìa tra i due òrdini di panche e che portava il busto in gesso, verniciato di verde, spolverizzato d’oro, dello stesso Proverbio – una perfetta insegna da macellaro!

Ed appancate, quante differenti testine! Là, una riccia siccome i trùciuoli del legnajuolo e castagnina chiara; quà, una arruffata, dal capello aspro e castagnina oscura; presso, una bionda, a ciambelline, vera matassa di seta; poi, una nera, ingommata, lustra al par di uno stivale (se lustro) in sèguito, tre cimate, una rossigna... E quanti diversi nasucci!... arricciati, a peperone, aguzzi, i più... incipienti... E quanti vispi occhiettini! grandicelesti, piccolineri, grigi che ammìccano, verdògnoli; quì, a lunghe ciglia, bassi come que’ di una mònaca; lì, strabuzzanti, da coccoveggia: o tondi come un duecentèsimi, o a sfenditura da caldarroste.

Il pettinatore morale di tutti questi ciuffetti – un fuseràgnolo alquanto scorretto di gambe, bircio, senza un pelo al labbro quantunque se lo carezzasse soventi e con un cinque o sei dozzine al più di capelli, tuttochè studiasse che la penna d’oca (in verità poggiata su di una molto visìbile orecchia) parèssegli ficcata nella capigliatura – si avanzò allora verso di noi.

– Signor cavaliere! – diss’egli chinàndosi a Proverbio.

– Stava forse dettando? – dimandò costùi vedèndogli in mano un foglio.

– Appunto, signore... La lèttera pel capo d’anno... ai parenti. La sua. Ne siamo, anzi, alla fine.

– E la finisca dunque – fece il direttore. E a sè tirò il seggiolone del maestro, vi si acconciò, poi, mi offerse un ginocchio. L’altro, accavalciàtosi l’occhialetto sul naso:

– Bene – disse, cercando col dito sul foglio – siamo restati a... a...

– Vita lunga e sempre lieta, la quale... – pispigliàrono i fanciullini.

– La quale – seguì il maestro – sarà coronata... da un èsito fortunato...

– Non per Mazzi, peraltro – osservò il direttore, accennando ad uno scolaretto che, invece di scrìvere, picchiàvasi con le dita a pizzico le gonfie gote. (Risa e movimento).

– Fortunato, ove il Signore assecondi... le preci mie; punto e virgola – Ed io farò... ogni... pos-sì-bi-le onde...

– Le preci mie? – Domandò un ragazzino in arretrato.

– Punto e virgola – ed io farò ogni possìbile, onde... – ripetè il maestro – onde rèndermi sempre più degno di CREDERMI Vostro – VI majùscola – af-fe-zio-na-tìssimo... ob-be-dien-tìssimo... – e mèttano o figlio, o nipote... o pupìllo... a seconda della persona cui scrìvono. Poi, il nome...

– E la data – compì Proverbio.

Si udì un susurro, uno stropiccìo di piedi per tutta la scuola: la è scorbiata... aah! Il direttore fece un gesto coll’indice.

– Bandinelli – disse – il vostro dettato -

Si dipancò un tomboletto, tondo, grasso e bianco come un pan di butìro – venne, e porse la sua carta da torta a Proverbio. Il quale vi mise gli occhi.

– Ahi, ahi... – notò sùbito – uno... due... tre... Tre o chiusi! in una sola linea!... E queste? le sono enne? le sono u?

– Ma il calamajo... – cominciò il bambino articolando con aspirazione.

– Sòlite scuse! Il calamajo! la penna, che rende grosso!... Come, se noi, i rè del creato, le copie autèntiche di Dio, dovèssimo ubbidire a de’ materialissimi oggetti! Cangiate scrittura, Bandinelli mio caro. Non sapete forse che nel caràttere calligràfico s’intravede anche il morale? Questo che voi possedete, sporco, ingarbugliato, è da arruffapòpoli, da testa balzana... già, guardate... non un puntino alle i, non una spranghetta alle ti! Bandinelli, procuràtevene uno, pieno, rotondo, ciccioso come la vostra presenza... E non è vero – aggiunse voltàndosi alla scolaresca – anzi! è falsìssimo che gli uòmini grandi scrivino alla maledetta. Migliaja e migliaja, ben in contrario, annerìrono le loro pàgine col più bel inglese del mondo... La è, Dio santo! questione sine qua non di buon gusto! – e a tale propòsito si pulì il naso con un moccichino stampato a cattedrali. – Poi, l’arte, non stà in quel che tu dici, ma nella forma che tu gli dai. Un bianco-mangiare in pappa, sentenza questa del Gran Luigi di Francia, ti sembra meno gustoso di uno che ti si porti a tàvola, ritto... E, di gente illustre con bella calligrafìa, ve ne potrèi citare un barbaglio... Fra gli altri... fra gli altri – quì si grattò un orecchio – Io, per esempio, ho nello scrìvere una mano eccellente... eppure – e riabassò il naso verso la inchiostrata di Bandinelli – senza vantarmi... stampài! –

Egli, leggendo a mezza voce, faceva il roco mormorìo d’un calabrone in un fiasco. Ma, a un tratto:

– Ah! Bandinelli – uscì a dir con rimpròvero, dando un buffetto al fogliuzzo – la vi in mandarvi si riferisce ai vostri signori parenti. Pure, qui non vi ha la majùscola! E perchè mò? e il rispetto? –

Il ragazzino sbirciò il punto accusato:

– È non è a capo – osservò.

– E i vostri parenti non lo sono forse? ribattè il direttore con un grosso sorriso – a capo della famiglia, eh? – e, come se avesse fatto uno stupendo trovato, ne gongolò tutto.

Nessuno proprio rideva.

– Ma che progressi, le lingue! Ora le si piègano adogni qualunque bizzarrissima idèa, rièscono ad esprìmere i nostri più astrusi concetti... Se, fortunatamente, non capitàssero di tanto in tanto delle brave persone a rattenerle per le sottane... già... perchè ogni troppo è troppo... Dio sa, a lasciarle còrrere a che diàvolo giungerèbbero! E a dire, mièi cari figliuoli, che l’uomo, il linguacciuto, lo sballone di adesso, non imbroccava, una volta, una sola parola; che, per comunicare altrùi i suòi più importanti pensieri, dovèa valersi di segni, di grugniti, di suoni imitativi?... Teltel (pioggia) balbettàvano gli antidiluviani con un sistema assài sèmplice, gnamgnam (cibo) da cui deriva il nostro magnare, zaf (sputo) omk (inghiottire). E poi... senza andare fino in Mesopotamia... poniamo che, da noi, quando, non essèndovi ancora nè azoto nè ossìgeno, si usava dormire la notte fra i rami o sotto gli àlberi... poniamo si rompesse il collo... una mela. Cadendo, essa, naturalmente, levava un rumore... quale? – quì egli appoggiò allo scrittojo un tale gran pugno da darne un balzo al signor maestro di terza ed al polverino – pu... um. Ed ecco, quelli del luogo, chiamare così il frutto staccàtosi; ecco, in sèguito, modificàndosi, ingentilèndosi la loro lingua, procèderne dritto dritto il nostro vocàbolo: pomo.

– Ma, e se fosse caduta una pera? – fec’io, senza soggezione, il dubbio. Proverbio si sconcertò un istante. Nessuno avèa mai opposto alle sue sesquipedali baggianate; tuttavia, riavùtosi e, ad ogni buon conto, tappàtami con un manuscristi la bocca:

– Il pero – disse – è una pianta moderna. –

Poi, si alzò: gli scolaretti, egualmente.

– Questi – mi avvertì egli allora nell’indicarmi lo spilungone che poco prima dettava – è il signor maestro di terza. E sarà il vostro, Etelredi. Lei poi – aggiunse – carissimo Ghioldi, favorirà di avere molta e molta pazienza, qui, col signorino... È figlio del conte Carlo Etelredi... Molti riguardi, capisce?

– E quando non ne ho forse avuti? – domandò Ghioldi, arrossendo.

– Eh! non si scaldi. Ella, fraintende. Dicevo di andare adagio col ragazzo... nient’altro. Bisogna abituarlo, al lavoro, ma, lentissimamente. N’è vero, Guido? – e mi offerse una manata di caramelle.

– Grazie.

– Dunque – continuò egli ritirando, spazzata, la mano e con l’altra sfregàndola come a frullar cioccolata – siamo intesi. Guido, obedienza. Ragazzi mièi, gramàtica e calligrafia. –

Quindi, partì.