La Bohême italiana/Capitolo VII. L'arrosto di Fra Angelico

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Capitolo VII. L'arrosto di Fra Angelico

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Capitolo VII. L'arrosto di Fra Angelico
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CAPITOLO VII.

L'arrosto di Fra Angelico.


L'indomani Fra Angelico era d'un umore così nero, da non osare interrogarlo sulla battaglia notturna dei gatti.

Appena in piedi era sceso in istrada ad osservare gli avanzi del suo bottiglione, rimasti ancora dinanzi alla casa, ed era rientrato guardandoci con una certa ostinazione inquietante. I suoi occhi non si staccavano specialmente dal naso del pronipote di Spartaco, che era diventato grosso e paonazzo in seguito a quel maledetto colpo di sandalo.

Che avesse avuto qualche sospetto su quei gatti? Io lo credo ancora.

Anche quel giorno a tavola mancò il vino. Nessuno di noi però osò lagnarsi. Già ne avevamo bevuto tanto la sera innanzi, da non sentirne il bisogno.

L'indomani le cose si aggravarono al punto da far temere una nuova sommossa.

Il maestro, colla scusa di possedere poco denaro, aveva dato l'ordine al nostro cuoco di preparare solamente delle aringhe e dell'insalata.

Vero pranzo da convento!...

A cena fu la stessa cosa, più alcune mele che furono lanciate fuori dalla finestra.

Il maestro fu trattato da tiranno, da avaraccio. Non se ne diede nemmeno per inteso, anzi minacciò di piantarci in asso.

Essendo noi completamente al verde, anche questa volta fummo costretti a capitolare. Fra Angelico per noi rappresentava la pappa e pel momento non volevamo guastarci interamente con lui.

Alla sera facemmo una nuova esplorazione sui tetti sperando di scovare qualche altro bottiglione. Ahimè! Non fu trovato che un gatto in cerca della sua compagna.

Per altri dieci giorni le cose procedettero così. Fra Angelico ci aveva sottoposti al regime del convento.

Non c'era altra abbondanza che di aringhe e d'insalata.

Ferrol giurava di non poter tirare innanzi così. Quintino affermava di dimagrare, il pronipote di Spartaco accusava un principio di scorbuto causatogli dal sale delle aringhe.

Il maestro faceva il sordo e diceva di trovarsi benissimo con quel regime. La cosa doveva essere vera poichè mentre noi dimagravamo, egli ingrassava beatamente.

Vi era sotto un mistero che dovevamo chiarire; ci era già nato il dubbio che egli mangiasse, di nascosto, dei buoni capponi.

Una sera, mentre stavamo a letto, ascoltando i lamenti di Quintino, udimmo la scala scricchiolare. Ci venne subito il sospetto che fosse il maestro.

— Io scommetto che il maestro va a bere ed a mangiare, — disse Ferrol. — Non può contentarsi di sole aringhe lui. Mi diceva che non le mangiava nemmeno in convento.

— Bisogna assicurarcene, — disse il pronipote di Spartaco.

— Deve avere qualche nascondiglio, — disse Quintino.

— Spiamolo, — suggerì Ferrol.

Ci alzammo senza far rumore e uscimmo su di un terrazzino che dominava la nostra campagna.

Vedemmo subito il maestro comparire in mezzo alle viti e dirigersi con precauzione verso la cantina, la quale si trovava a fianco del pianterreno.

— Che abbia qualche bottiglione nascosto dietro le botti? — si chiese Ferrol.

— Andremo a fare una visita, — disse Quintino.

L'assenza del maestro durò un quarto d'ora. Quando lo vedemmo ricomparire, ci parve di buon umore. Il morto ci doveva essere nella cantina.

— Briccone di maestro! — disse Quintino con faccia feroce.

Ci fa morire di fame, mentre lui si nutre di capponi! Giuro tremenda vendetta!..

— E vendetta sia! — dissero Ferrol ed il pronipote di Spartaco con accento truce.

Aspettammo che il maestro fosse salito, poi discendemmo nell'orto calandoci da una vite che s'arrampicava fino alla piccola terrazza.

La cantina non aveva chiave, quindi non era necessario forzare la porta.

Dopo essersi accertati che il maestro non ci spiava, scendemmo cautamente la scala. Sembravamo i cospiratori di Madama Angot.

Vi erano molte botti, — eppure durante il nostro soggiorno mai avevamo gustato un sorso di vino nè grosso nè piccolo — ed una vecchia credenza che noi non avevamo mai visitata.

Quel mobile di venerando aspetto ci diede subito nell'occhio.

— Che il morto possa trovarsi là dentro? — disse Ferrol.

— Vediamo, — rispose Quintino.

Fu aperto, non senza fatica, avendo i cardini molto arrugginiti, e vi trovammo dentro.... indovinate che cosa?

Nientemeno che un tacchino arrostito a cui mancava solamente un'ala!...

Fu uno scoppio d'indignazione.

— Maestro ghiottone! — disse Quintino. — A lui i tacchini ed a noi le aringhe! Non si è mai vista una cosa simile!... Miei denti preparatevi alla vendetta.

— Bisogna punire il tiranno! — disse Ferrol.

— Mangiandogli l'arrosto, — disse il pronipote di Spartaco.

— È quello che faremo subito, — disse Quintino.

— E domani?... — chiesi io.

— Che se ne torni a Roma! — gridò Quintino.

— Ci pianterà senza un picchio.

— Andrò dall'ebrea.

— A impegnare che cosa? Non abbiamo più zimarre.

— Io ho un paio di pantaloni, — disse il pronipote di Spartaco.

— Io ho troppe camicie, — disse il miniatore.

— Ed io delle mutande fuori d'uso, — aggiunse Quintino. — Commoverò un'altra volta l'ebrea e mi farò dare almeno quindici lire.

— Che ci basteranno appena per due giorni, — osservai.

— Abbiamo imparato a diventar economi, — disse Quintino. — Con quindici lire camperemo quattro settimane.

— Tanto più che l'affitto è stato pagato per tre mesi, — osservò Ferrol.

— Allora vada il tacchino, — diss'io. — Se il maestro vorrà andarsene, tanto peggio per lui. —

Ci eravamo già impadroniti dell'arrosto, quando Ferrol, l'uomo dalle grandi idee, ci arrestò con un gesto.

— No, — disse, — noi non possiamo commettere un furto. —

Lo guardammo in cagnesco.

— Ecco un traditore! — esclamò Quintino con aria truce.

— Io non lascerò qui il tacchino, — disse il pronipote di Spartaco. — Pensate che non ne mangiamo dal Natale dell'anno scorso. Solamente il profumo mi fa quasi svenire.

— E questo sciagurato vorrebbe lasciarlo al maestro. Tu non hai cuore.

— Anzi ho le viscere commosse, — disse Ferrol.

— Brontolano dal desiderio di inghiottire questo cadavere, — disse il pronipote di Spartaco.

— E lo inghiottiranno, te lo assicuro. Vi ho fermati solamente per trovare il modo di mangiare il dindo senza rubarlo.

— Ecco un mistero inesplicabile, — disse Quintino. — Andrò a farmelo spiegare da una sonnambula mia amica, dopo però aver fatto sparire l'arrosto. Pel momento non ho tempo.

— Va' in cucina a prendere il gatto, — disse Ferrol.

— Disgraziato! Vorresti dare a lui l'arrosto! — gridò Quintino.

— Va' a prenderlo, poi spiegherò l'enigma. —

Quintino fu pronto ad obbedire. Forse aveva indovinato il mistero, senza ricorrere alla sonnambula.

Avevamo un bel micio, molto grasso non ostante la si passasse magra nella nostra casa. Probabilmente qualche micia gli somministrava delle costolette che rubava alla sua padrona.

Mentre Quintino s'azzuffava col gatto che non voleva lasciarsi prendere, Ferrol, con un'abilità da medico, aveva sezionato il dindo lasciando intero lo scheletro.

Mise le polpe da una parte poi cacciò la carcassa nella credenza.

Quando Quintino, tutto graffiato, ricomparve, prese il gatto e lo gettò nel vecchio mobile a tenere compagnia allo scheletro del dindo. Il mistero era spiegato.

Il maestro non avrebbe potuto sospettare su di noi, poveri innocenti. Scappammo a letto col bottino, facendo una bella scorpacciata in barba al tiranno.

La mattina fummo svegliati da un tramestìo infernale. Pareva che nella cantina succedesse una vera battaglia. Sulle botti grandinavano legnate da orbi e udivamo miagolii feroci. Era il maestro che somministrava una severa correzione a quell'ingordo micio.

Noi, sotto le coltri, ridevamo a crepapelle.