Le novelle della nonna/La mula della badessa Sofia

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La mula della badessa Sofia

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La mula della badessa Sofia

Tutte le ragazze del vicinato di Farneta avevan messo gli occhi sul bell’artigliere, quand’era tornato a casa, e ora digerivano male che la scelta di lui fosse caduta sulla più povera tra loro. Per spiegare questo fatto, non volendo ammettere che Vezzosa le superasse tutte in bellezza, poiché la vanità regna nell’animo delle contadine come in quello delle grandi dame, e non volendo neppur riconoscere che ella avesse maniere garbate e insinuanti, dicevano che Cecco era buono e la sposava per compassione, per levarla dalle mani della matrigna. Questi discorsi erano arrivati all’orecchio di Vezzosa, ma ella era così felice, che non ci aveva badato; peraltro, quando giunsero all’orecchio di Cecco, fu un altro affare. Egli non voleva che si dicesse che la compassione sola lo aveva spinto nella scelta, ed aspettava che la domenica successiva alcune ragazze fossero in casa sua a udire la novella della Regina e a curiosare un poco, per dire allora dinanzi a tutte quelle pettegole il fatto suo. Vezzosa aveva desinato dai Marcucci anche quel giorno e, vinto ormai il primo impeto d’avarizia di Maso, dei fratelli e delle cognate, ella era trattata da loro con una cordialità come se avesse fatto parte della famiglia fin dalla nascita. Non si sentiva dir altro che: «Vezzosa, vieni qua; che ne dici, Vezzosa? Vezzosa, aiutami»; ed ella andava da un punto all’altro della casa, svelta, senza far rumore, senza affannarsi, contentando tutti. Cecco la guardava, e siccome molte ragazze del vicinato erano già in cucina, sedute accanto alla vecchia, egli approfittò di un momento in cui Vezzosa era andata a mettere a letto il più piccino dei bimbi, per dire alla cognata più anziana: - Ditemi, Carola, non siete contenta dacché Vezzosa vi aiuta nelle faccende di casa? - Contentona, - rispose la Carola. - Essa fa tutto tanto volentieri e con tanto garbo, che se in ogni casa ci fosse una ragazza come lei, le faccende anderebbero meglio. Ora che la conosco, ringrazio Iddio a mani giunte; e se tu non l’avessi scelta per moglie, ti direi: «Sceglila subito!». La Carola era conosciuta nel vicinato come donna tutt’altro che di facile contentatura, e soprattutto molto attaccata all’interesse. Nel sentirla parlar così, le ragazze si dettero una guardata di sottecchi, e certo non osarono più dire che Vezzosa entrava in casa Marcucci per la finestra, invece che per la porta spalancata. Non era Cecco solo che le voleva bene, ma tutti, anche la Carola, di solito così poco espansiva. Cecco gongolava per essere riuscito a dare a Vezzosa una riparazione morale, e quando ella scese, disse alla mamma: - Volete raccontarci la novella? - Volentieri, tanto più che quella che ho in mente di dirvi, credo di non averla narrata mai. Me ne son rammentata udendo parlare di Pratovecchio e del convento delle monache. - Dovete sapere che qualche centinaio di anni fa, più di settecento, credo, era signore di Pratovecchio un certo Guido de’ conti Guidi. La moglie di questo signore si chiamava madonna Emilia, e non aveva dato al marito che un figlio, per nome Ruggero, e una figlia per nome Sofia. Pareva però che la natura si fosse compiaciuta di dare alla femmina un animo maschile, e al ragazzo un animo portato più alla vita effemminata dei castelli, che alle balde imprese di guerra. Così, mentre Sofia, appena grandicella, accompagnava il padre nelle cavalcate e nelle cacce, col falco in pugno, e ammirava più una forbita armatura che un ricco monile da gentildonna, Ruggero si dilettava soltanto nel suonare il liuto e nell’ascoltare le ciance delle donne del castello, intente ai lavori d’ago. Queste tendenze del figlio erano di grave cruccio al fiero conte Guido, il quale temeva che l’erede del suo nome non sapesse difendere i feudi della famiglia e ne cagionasse la rovina. Anche all’aspetto, Ruggero non aveva certo presenza maschile. Piccolo, gracile, biondo, pallido in viso, si stancava nel maneggiare la spada o la lancia, e ogni giuoco faticoso gli cagionava disagio e malessere. Sofia, invece, era alta, bruna, correva come un capriolo, lanciava dardi, e non sapeva vivere nelle stanze chiuse del palazzo di Pratovecchio. Pronta al comando, ardita, pareva nata per signoreggiare e farsi temere. Naturalmente Ruggero, stando più accanto alla madre, s’istruiva nelle arti gentili, mentre Sofia non si appassionava altro che per le imprese di guerra. Quando fu in età da marito, ella rifiutò a uno a uno tutti i signori che la chiedevano in isposa, e il padre non la costringeva ad accasarsi, perché gli dispiaceva di perdere quella compagna di corse e di cacce, quella fanciulla di animo virile, che maneggiava le armi con tanta destrezza. Così passavano gli anni, e il conte Guido si faceva sempre più debole. Un giorno Sofia era seduta nell’ampia sala del palazzo di Pratovecchio, sotto la cappa del camino di pietra, rozzamente scolpito e nel quale ardeva un ciocco di rovere. Era la stagione più rigida dell’anno, e il Conte, che incominciava a sentire gli acciacchi della vecchiezza, era molto triste. Pensava che alla sua morte nessuno rimaneva per difendere il castello dagli assalti guerreschi, poiché Ruggero non aveva nessuna delle virtù che costituiscono un prode cavaliere. Sofia lesse questi pensieri angosciosi sulla fronte del padre, e, ponendogli le mani sulle ginocchia e guardandolo fisso, gli disse: - Signor padre, sono disgraziatamente una femmina, e non posso vestire l’armatura né adoprarmi come vorrei per la difesa dei nostri feudi. Di Ruggero non parlo; nelle sue mani, la nostra casata perirebbe. Tu sai che ho rifiutato le offerte di matrimonio di molti gentiluomini, non perché li credessi indegni della mia mano, ma perché mi pareva che, allontanandomi di qui, io avrei tolta una valida protezione alla famiglia e ai nostri terrazzani. Purtroppo, padre mio, la vita dell’uomo ha breve durata, e il giorno in cui i tuoi occhi si chiudessero, io non vorrei essere lontana di qui per porre il mio braccio e il mio senno al servigio della famiglia. Per questo ti chiedo che tu eriga, accanto a questo palazzo, un monastero, affinché io possa divenirne badessa. Ho inteso dire e ho veduto che, oltre i signori di castelli, non vi sono che i vescovi, gli abati e le badesse che possano vivere liberamente e liberamente comandare. Tu sai, signor mio, che io sono nata per il comando e non per l’ubbidienza. Così, non scostandomi da questo luogo, potrò ad un tempo vegliare sui feudi di mio fratello e appagare il mio bisogno di dominio. - Quello che tu chiedi, figlia, sarà fatto. Domani messer Baldo, il nostro dottore, redigerà una lettera per l’Imperatore, nella quale io chiederò che sieno aggiunti alla nuova abbazia alcuni terreni e borghi vicini. Tu, intanto, pensa a qual Santo desideri sia dedicato il monastero. Il vecchio signore prese fra le mani tremule la fiera testa di Sofia, e la baciò sulla fronte. La giovane signora si ritirò in camera sua e trasse da un vecchio mobile di quercia un libro, ornato di figure di santi. Ella non sapeva leggere, ma dalle immagini miniate dalla mano abile di un monaco Camaldolense, ricavava la storia dei martirî e dei miracoli di molti beati. Il suo occhio si fermò specialmente sopra una pagina in cui era raffigurata la testa sanguinante di san Giovanni Evangelista, deposta sul bacino, pure insanguinato. Ed a Sofia parve che gli occhi di quella testa la mirassero supplichevolmente e che due lacrime scorressero su quelle livide guance. - Ecco il Santo al quale dedicherò la nuova abbazia! - disse la giovane. - E in memoria del frate Camaldolense, che ha delineato la testa di san Giovanni Evangelista, le mie monache seguiranno la regola di san Romualdo. Quella notte Sofia non sognò altro che la testa insanguinata della vittima di Erode, e si vide vestita del lungo abito bianco dell’ordine, alla testa di una numerosa processione di monache. La mattina dopo, ella scese il ponte levatoio del castello per recarsi sul luogo ove desiderava sorgesse il suo monastero. Era seguita soltanto da due valletti e dal padre confessore. Sofia aveva fatto pochi passi lungo i fossati del castello, quando vide distesa in terra una bianca mula, sfinita di forze e tutta coperta di guidaleschi sulla schiena e sulle gambe. Pareva che la povera bestia stesse per mandare l’ultimo respiro; ma quando vide Sofia, fece uno sforzo supremo e, riunendo i quattro piedi, si alzò all’improvviso e le si accostò nitrendo. La giovane strappò pochi fili d’erba secca sulla proda del fossato e li offrì alla mula, la quale, barcollando e tentennando il capo, li prese e si diede a masticarli. Sempre barcollando sulle malferme gambe, la povera bestia seguì Sofia fino al luogo ove ella aveva in mente di costruire il monastero, e giunta colà cadde di botto in terra. La signora ordinò a uno dei valletti di tornare al palazzo e di chiedere una barella con quattro portatori robusti per trasportare nella stalla la bestia sfinita. I portatori giunsero: ma per quanti sforzi essi facessero, non riuscivano a movere la mula. Allora Sofia, sentendo che il vento soffiava gelato dai monti e vedendo che la neve incominciava a turbinare, ordinò agli uomini di non turbare l’agonia di quel povero animale e di fargli con alcune frasche un riparo, tanto per non lasciarlo seppellire dalla neve. Gli ordini di Sofia vennero subito eseguiti. Fu portato acqua e fieno alla mula, le fu gettato una coltre addosso, e soltanto quando la ragazza vide che nulla mancava alla bestia ammalata, ritornò al castello. Quel giorno stesso il conte Guido di Pratovecchio mandava all’imperatore Lotario, un messo recante una lettera, con la quale egli chiedeva la creazione dell’abbazia di San Giovanni Evangelista, dell’ordine di San Romualdo, nonché l’investitura di quell’abbazia per la figlia. La risposta dell’Imperatore doveva farsi aspettare molto tempo, ma quel periodo d’aspettativa non doveva parer lungo a Sofia; poiché in essa si compierono avvenimenti così meravigliosi che la tennero occupata notte e giorno. La mattina dopo, nonostante che la neve ricoprisse il terreno, ella uscì con la solita scorta per andare a visitare la mula; ma aveva appena varcato il ponte levatoio, che l’animale incominciò a nitrire in segno di gioia. - Madonna, questo è un miracolo! - esclamò il giovine Corrado da Barberino, uno dei valletti che l’accompagnavano. - La mula è viva e io non avrei dato un soldo della sua carcassa, tanto era rifinita. La mula, infatti, non soltanto era viva, ma se ne stava ritta gagliardamente sulle quattro zampe e con le narici fiutava il vento, come se fosse impaziente di slanciarsi alla corsa. I guidaleschi in quelle poche ore erano sanati come per incanto; e l’animale, ringagliardito, dimostrava di non essere una mula comune, ma di quelle bensì che servivano di cavalcatura ai papi, agli abati e alle dame nobili. Sofia la condusse al castello e la fece collocare nella stalla dove si tenevano i cavalli del Conte; le fece fare una morbida lettiera, e ordinò alle sue donne di trapuntarle una ricca gualdrappa di panno cremisi. Da quel giorno Sofia non ebbe altra cavalcatura, e la mula era così agile e sicura che nessun cavallo la vinceva alla corsa, e nessuno s’inerpicava meglio di lei su per le vie scoscese dei monti. Intanto era incominciata la costruzione della chiesa dedicata a san Giovanni Evangelista e del monastero. Sofia andava ogni giorno a vedere i lavori, impartiva ordini, e il conte Guido era più impaziente di lei di veder presto terminato quell’edifizio, che doveva servire d’asilo alla diletta sua figlia. Quando giunse la risposta affermativa dell’imperatore Lotario, già l’edifizio, che aveva più l’aspetto di una fortezza che di un monastero, era coperto, e non rimaneva altro che da benedire la chiesa. Nel nuovo monastero Sofia aveva fatto costruire, sotto la camera sua, una bellissima stalla per la mula. Nell’impiantito stesso della camera vi era una bodola, e sotto a quella una scaletta che metteva nella stalla, per modo che la Badessa potesse scendere direttamente dalla mula e, all’occorrenza, salirle in groppa e correre colà dove il bisogno la chiamava. Poiché Sofia non aveva dimenticato che doveva essere la difesa del fratello e dei beni della famiglia. Appena si seppe in Casentino che la figlia del conte Guido fondava un monastero, giunsero numerose le domande di ammissione per parte delle fanciulle di nobile casato, che preferivano la vita calma del chiostro a quella agitata dei castelli; e il giorno che l’abate scese in gran pompa dall’Eremo di Camaldoli per benedire la chiesa e il convento, già venti ragazze nobili facevano corona a Sofia, e molte contadine, che si contentavano dell’umile ufficio di converse. Il conte Guido e la contessa Emilia vollero che la cerimonia fosse oltre ogni dire sontuosa e non trascurarono di donare alla chiesa ornamenti preziosi, croci, calici, lampade, candelabri e paramenti sacri. Pochi giorni dopo che Sofia ebbe vestito l’abito bianco dell’ordine di San Romualdo, il vecchio Conte spirò fra le braccia de’ suoi, raccomandando anco una volta alla figlia di vegliare sulla madre, su Ruggero, sul loro castello, sui terrazzani. Furono fatte solenni esequie, e il corpo del Conte venne deposto nell’avello della chiesa, sotto la custodia della badessa Sofia. Appena il vecchio ebbe chiuso gli occhi, incominciò a destarsi la cupidigia del signor di Porciano. Tutti sapevano che Ruggero era molto debole, e in quei tempi, in cui la forza e la prepotenza equivalevano al diritto, pensavano che un feudo così importante non doveva rimanere nelle mani di chi non sapeva difenderlo. Si armarono dunque, tanto il Conte, che era un fiero cavaliere, quanto i quattro figli, e scesero dalle loro balze seguiti da una turba di soldati, per assediare all’improvviso Pratovecchio, che credevano indifeso, e impadronirsene. Ma Sofia vegliava, e soprattutto vegliava la mula. Appena i signori di Porciano erano scesi dal loro castello, la mula s’era messa a raspare con le zampe, a sbuffare e a nitrire, e Sofia, che credeva fermamente che quell’animale le fosse stato inviato da san Giovanni, si insospettì, e nel cuor della notte corse al castello per prepararlo alla difesa; guarnì di uomini armati tutte le feritoie, e dopo aver dato gli ordini che credeva opportuni, ritornò al monastero e fece sonare a stormo. Da ogni parte giungevano i terrazzani dipendenti dall’abbazia, ed ella, che aveva nelle mura del chiostro un vero arsenale da guerra, li armava e li incitava alla difesa. Così quando i signori di Porciano sbucarono davanti al castello per assalirlo, ella, spiegando il gonfalone su cui era trapunto il capo di san Giovanni Evangelista, montata sulla bianca mula, andò loro incontro alla testa dei suoi uomini armati. - Perché giungete con tanto apparato di guerra, Conte? - domandò Sofia fermandosi a pochi passi dal signor di Porciano. - Quale offesa vi fu fatta da mio fratello o da me? - Io non sono uso di trattare di faccende guerresche con femmine, - rispose il Conte. - Rientrate, dunque, madonna, nel vostro monastero e pensate alle cose dell’anima. - Ci penso quando non ci minaccia nessun pericolo; ma ora non ho altra cura che quella della difesa. Una risata di scherno partì dalle file dei porcianesi. Sofia si sentì ribollire il sangue nelle vene e, afferrato lo scudo e la spada che le offriva il giovine valletto Corrado da Barberino, mosse ardita contro i nemici, gridando: - Per san Giovanni Evangelista, a me, miei fidi! La mula non corse, ma volò a gettarsi nella mischia. Sbuffava, rompeva le file dei combattenti, colpiva con la testa e con le zampe quanti cavalli le si paravano dinanzi, mentre la spada di Sofia faceva strage dei nemici. Quella donna vestita di bianco e quella mula bianca parevano un solo fantasma distruggitore. La spada di Sofia, che mandava lampi, s’immerse nel collo del conte di Porciano, dopo aver ferito molti dei suoi. Un grido di sgomento partì subito dalle file degli assalitori, vedendo cadere il loro capo, e tutti si diedero a fuga precipitosa nella campagna. Sofia, sventolando il gonfalone in segno di vittoria, ordinò ai suoi di raccogliere il ferito e di portarlo al monastero, dicendo: - Se i signori di Porciano vorranno il loro capo, debbono venirlo a prendere nel castello. Gli ultimi fuggiaschi dovettero udir certo queste parole di sfida, perché due giorni dopo, chiesto rinforzo ai loro dipendenti, signori dei piccoli castelli sulle balze dell’Appennino, si presentarono ben più forti della prima volta, e mandarono un messo a Sofia, dichiarandole che volevano misurarsi a corpo a corpo con il conte Ruggero, e non con una monaca che chiamava in suo aiuto il Cielo... e magari l’Inferno. Sofia ricevé il messo, non nella sala della sua abbazia ma nel cortile del castello, mentre ritornava da una ispezione alle terre, nella quale si era trascinata dietro il fratello. - Direte al vostro signore che domani all’alba il signor di Pratovecchio scenderà in campo aperto attendendolo. Egli parla mal volentieri, ma si batte con piacere, e quando avrà scavalcato il primogenito dei signori di Porciano, affronterà il secondogenito, il terzo e anche il quarto, - rispose la fiera monaca. Il messo s’inchinò e fu riaccompagnato, dai valletti e dagli uomini armati, al di là del ponte levatoio. Sofia, appena il messo fu andato via, corse a sostenere il fratello, che stava per perdere i sensi. - Perché, - diceva egli con voce tremante, - perché hai fatto a nome mio quella promessa? Io non mi batterò mai; morirei se dovessi scendere in campo! - Calmati, signore, - rispose la Badessa con un sorriso di scherno. - Se ho promesso, manterrò, e il cavaliere che scavalcherà il signor di Porciano, sarò io e non tu. Dopo aver detto questo, ricondusse Ruggero alla madre più morto che vivo, ed alla Contessa raccomandò di vegliare sul figlio, poiché era in uno stato miserando. Poi ella distribuì armi, assegnò a ogni uomo il proprio posto e, scelta nella sala d’armi una forbita armatura, una spada, un’asta, un pugnale e uno scudo, se li fece recare al monastero, ordinando che le porte del castello fossero sbarrate e non si aprissero altro che se ella avesse sventolato il gonfalone con san Giovanni Evangelista. Nel monastero ella fece pure preparativi di guerra, schierò dinanzi a quello e al palazzo buon numero d’armati, e prima dell’alba, vestita l’armatura e inforcata la sua mula, scese in campo. Il figlio primogenito del prigioniero non tardò a giungere, e, schierati i suoi uomini dal lato opposto di quelli di Pratovecchio, salutò il cavaliere nemico, e il duello ebbe principio con l’asta. Sofia, portata dalla mula impaziente, fu addosso in un momento al cavaliere, e l’urto che questi ricevé dall’asta della Badessa e che il cavallo si ebbe dalla mula, li fecero precipitare per terra. Quando i fratelli del caduto videro questo, accecati dall’ira, piombarono subito sopra a Sofia, e dietro a loro si avanzò un forte drappello di soldati per aiutarli. I colpi piovevano come grandine sul morione e sull’armatura della Badessa, la quale non poteva neppur sollevare il braccio per difendersi, ma intanto la mula sbuffava, calciava, calpestando il corpo del caduto, che spirò fra atroci dolori. Appena l’anima di lui fu uscita dal corpo, la mula si sollevò da terra come se fosse stata un uccello, sgominando a calci i nemici, e poi depose Sofia in un punto poco lontano dove potesse servirsi delle armi contro di loro. Oltre il primogenito dei signori di Porciano, la prode Badessa scavalcò anche il secondogenito, e avrebbe vinto anche gli altri due, se essi, sgomenti, non si fossero dati alla fuga. Allora ella prese dalle mani di Corrado da Barberino il gonfalone con la testa di san Giovanni Evangelista e lo sventolò in segno di vittoria, invitando i suoi a inseguire i fuggiaschi. Questi, il giorno dopo, vennero umili a chieder pace. Domandavano il cadavere del loro fratello morto, la liberazione del padre e la consegna dell’altro fratello ferito. In cambio offrivano terre e molto denaro. Il messo fu ricevuto da Sofia in abito da cavaliere. Ella accondiscese ai patti, purché i signori di Porciano promettessero che non avrebbero più molestato i signori di Pratovecchio. Queste condizioni le dovevano scrivere, e aggiungere che sarebbero sleali qualora non le mantenessero. Le promesse non costano nulla e si fanno facilmente, ma è più agevole romperle che osservarle, e questo avvenne per i signori di Porciano. Appena riebbero i loro prigionieri, pensarono di vendicarsi. Ormai avevano scoperto che era stata Sofia, la fiera Badessa, che li aveva vinti, e quest’umiliazione inflitta loro da una donna non potevano inghiottirla a nessun costo. Ma che Sofia fosse valente nelle armi, non potevano negarlo, e non volevano misurarsi con lei per non esporsi a nuova vergogna; perciò occorreva rapirla e farle pagare con una lunga prigionia, e forse con la morte, la baldanza dimostrata. Sofia era troppo schietta per supporre che i signori di Porciano macchinassero contro di lei un tradimento, e non poteva supporre che quattro cavalieri, tra cui un vecchio, mancassero alla parola data e si esponessero ad esser accusati da ognuno di fellonìa. Non temendo dunque nessun attacco, ella si dava alle cure del suo monastero, agli esercizî spirituali, e nelle ore che le rimanevano libere, visitava la madre ed il fratello, il quale diveniva ogni giorno più effeminato e quasi stupido. Una sera dunque, mentre se ne tornava dal palazzo all’abbazia pensando alla triste impressione ricevuta nel trovare il fratello curvo sul telaio a ricamare un velo di seta come una femminuccia, vide uscir fuori da un ciuffo d’alberi un branco d’uomini armati. Prima che avesse il tempo di gridare, essi l’avevano legata, imbavagliata, e buttata come un sacco in groppa a un cavallo; poi si erano allontanati, portandola seco prigioniera. All’abbazia aspettarono un pezzo la Badessa, ma quando non la videro giungere, inviarono a cercarla dovunque. - Che cosa sarà successo? - si domandavano le monache fra di loro. Andarono nella camera, era vuota; scesero nella stalla, la mula era legata alla mangiatoia; soltanto sbuffava, raspava, e dagli occhi mandava lampi. Finalmente die’ uno strattone alla corda, la quale si spezzò; allora la mula aprì con una zampata la porta della stalla, uscì nel cortile, e con un lancio saltò al di là delle mura dell’abbazia e dei fossati, e via a corsa sfrenata verso Porciano. Le monache, vedendo l’animale in tanta furia, si sbigottirono e, cessate le ricerche, si riunirono in chiesa, davanti a una immagine di san Giovanni Evangelista, che fecero ornare di lumi, e rimasero là in orazione per molte ore. Intanto la mula correva verso Porciano senza toccar quasi il terreno, tanto aveva il piede svelto. Giunse al castello che era già notte buia, e il ponte levatoio, abbassatosi per lasciar passare Sofia e i rapitori, era rialzato. La mula spiccò un salto, varcò il fossato, imboccò la pusterla, rovesciando quanti incontrava, e si fermò davanti all’uscio sbarrato di un sotterraneo. Pareva che udisse una voce a lei nota, perché drizzava le orecchie, sbuffava e calciava contro l’uscio per farsi sentire. Gli uomini d’arme, spaventati nel vedere quell’animale bianco, infuriato, si rinchiusero frettolosamente in una stanza, altri si affacciarono al ballatoio della scala, ma non ebbero coraggio di scendere, e intanto la mula continuava a fare un rumore d’inferno davanti alla porta del sotterraneo. Accorgendosi che l’uscio resisteva ai calci, l’animale s’inferociva sempre più, e imboccata la scala, la salì di corsa e penetrò come un fulmine nella grande sala del palazzo, dove i giovani signori di Porciano erano aggruppati intorno al padre, ridendo per essere riusciti nell’impresa di mettere in gabbia la fiera Badessa. Nel vedere la mula bianca, il vecchio Conte e i figli mandarono un grido di terrore e cercarono di rifugiarsi in altre stanze; ma la mula li rincorreva, li spingeva contro il muro, li gettava in terra e poi a suon di calci, di morsi, di zampate li uccideva. Quando li vide tutti distesi come tanti cenci per terra, scese la scala, e afferrato con i denti il carceriere, che traversava il cortile per darsi alla fuga, lo trascinò davanti all’uscio del sotterraneo e non lo lasciò andare altro che quando questi ebbe aperta la prigione. Allora la mula si diede a nitrire, e Sofia, udendola, salì l’angusta scala scavata nel masso, balzò in groppa all’animale, e poco dopo giungeva sana e salva alla sua abbazia e faceva suonar le campane per avvertire il popolo di Pratovecchio di armarsi; ma non ce n’era bisogno, perché quelli di Porciano avevano da seppellire i loro signori, ed era tanto il terrore che sentivano per la mula, che non avrebbero mai più osato di avvicinarsi all’abbazia e al castello. Dopo questo fatto nessuno turbò più la vita tranquilla di Sofia. Sua madre e il fratello Ruggero si spensero placidamente, e la Badessa sola rimase a guardia del castello. Ella visse lungamente e la mula si mantenne sempre forte e agile tutto il tempo che Sofia rimase a questo mondo. Nell’abbazia e in tutto il Casentino si attribuiva a miracolo quel lungo vivere di un animale, e si diceva che la Madonna e san Giovanni Evangelista avevano mandato quella mula a Sofia per aiuto e sostegno nelle vicende di una esistenza divisa fra le cure del monastero e la difesa di vasti feudi. Infatti il giorno in cui Sofia si spense, la mula ruppe la cavezza e fuggì via, né di lei si seppe altro. Morta la Badessa, ricominciarono gli attacchi al castello e all’abbazia, finché l’imperatore Corrado, che era succeduto a Lotario, non ebbe dato quel feudo a un altro conte Guidi. E così la novella è finita.

Ma se la novella era terminata, la veglia non si sciolse subito, perché la Carola aveva preparato la pasta per fare i necci, e appena Regina ebbe cessato di parlare, prese i testi, li arroventò, li rivestì di foglie di castagno e poi, versatavi sopra la pasta, li mise per un momento al fuoco. Quei necci bollenti sono la ghiottoneria dei bimbi dell’Appennino toscano, e anche dei grandi. La Carola ne distribuì a tutti una certa quantità, coprendoli di burro fresco; per i grandi mise fuori una bottiglia di vin santo, e la veglia si protrasse lungamente. A un certo punto, mentre tutti mangiavano, comparve la matrigna di Vezzosa. - È questa un’ora da stare fuori di casa? - disse alla figliastra senza neppur dar la buona sera. - Via subito! Vezzosa si alzò per ubbidire, ma la Carola la trattenne. - Finché è con noi, voi non le potete far rimproveri, - disse alla vecchiaccia. - Andate pure a letto e non vi date pensiero; la riaccompagnerà Maso. La donna se ne andò scorbacchiata, rifiutando di accettare i necci e il vino, e Cecco si accostò a Vezzosa per dirle: - Sai, fra tre domeniche è Pasqua; ci hai poco più da tribolare, abbi pazienza! Ella gli rivolse uno sguardo pieno di gratitudine e non disse nulla. Il martirio era per finire, e ormai la pazienza non le mancava più.