Le pantere di Algeri/Capitolo 28 - Il filtro dei califfi

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Capitolo 28 — Il filtro dei califfi

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Capitolo 28 — Il filtro dei califfi
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28.

IL FILTRO DEI CALIFFI


Come Zuleik aveva detto ad Amina, una quindicina di rinnegati, quantunque per la maggior parte feriti, erano stati presi vivi dai giannizzeri che li inseguivano.

Stretti fra i due drappelli che muovevano in senso contrario, accerchiati poi da tutte le parti in quella viuzza chiusa da alte muraglie, i disgraziati, quantunque avessero opposta la più fiera resistenza e avessero cercata risolutamente la morte per sfuggire agli orribili castighi che li attendevano, erano stati atterrati, disarmati e legati.

Erano una quindicina fra italiani, spagnoli, fiamminghi e francesi, ridotti in uno stato compassionevole da quella lotta accanita, colle vesti a brandelli ed i corpi bruttati di sangue. Gli altri, più fortunati, erano caduti nella mischia dopo d'aver fatto strage dei loro assalitori.

C'era voluta tutta l'autorità dei capi e la promessa che si sarebbe dato un castigo esemplare per frenare il furore dei giannizzeri, ed impedire che anche quei superstiti venissero massacrati sul posto.

I prigionieri, sotto una scorta fidata, onde sottrarli ad un possibile attacco da parte della popolazione che al primo annuncio dell'assassinio di Culchelubi si era precipitata per le vie, reclamando aspra vendetta, erano stati tratti rapidamente nel bagno dei Pascià, che si considerava allora come il più solido ed il più sicuro, avendo le terrazze armate di colubrine.

Prima ancora che avessero potuto riaversi, quei miseri erano stati sottoposti a spaventevoli torture, per strappare dalla loro bocca il nome dei loro complici, salvati da quella banda di algerini che le autorità supponevano fossero cristiani.

Alcuni erano stati gettati nudi su ramponi infissi nelle pareti del bagno, altri cacciati vivi, fino alla cintola, entro fosse ripiene di calce; altri ancora più disgraziati, erano stati spelati coi rasoi versando su quelle spaventevoli ferite della cera bollente!1 Fra gli strazi di quell'atroce agonia, il nome del barone di Sant'Elmo era sfuggito alle loro labbra, ma nessuno aveva potuto dare alcuna indicazione sul suo rifugio, né dire nulla su quella banda di algerini che lo aveva portato via assieme al servo. Né i pochi che erano stati serbati per impalarli sul porto, onde la popolazione potesse godere la sua parte di spettacolo, non ostante le più orribili minacce e le bastonate, avevano potuto dire di più. Quando Zuleik giunse al bagno, i torturati, che da venti ore agonizzavano sulle punte dei ramponi, stavano per spirare, senza aver nulla aggiunto alla confessione già fatta.

Il caid, che aveva assistito al loro martirio, sperando sempre di sorprendere sulle loro labbra qualche altra parola che lo mettesse sulle tracce dei complici, aveva subito accolto il moro, felice di poter parlare con un discendente dei califfi.

— Avete appreso nulla di nuovo? — aveva chiesto Zuleik, entrando nella sala dei supplizi.

— Nulla, signore — aveva risposto il cadì facendo un gesto di scoramento. — Questi maledetti cristiani muoiono senza confessare, eppure non abbiamo risparmiato le più atroci torture.

— Sono stati inutili, perché io credo che essi non sappiano di più di quanto hanno detto. Io però spero di essere sulla buona traccia.

— Voi, signore?

— Sono certo che finirò per scovare il luogo ove il barone di Sant'Elmo si nasconde.

— Voi sapete che il bey ha promesso mille zecchini a chi lo arresta.

Zuleik alzò le spalle.

— Non è il premio che mi alletta — disse. — I Ben-Abad non sanno che farne dell'oro.

— Lo so, signore. Non avete alcun sospetto su quegli algerini? E mi hanno anzi detto che vi erano dei negri fra di loro.

— Nessuno, — rispose Zuleik, — d'altronde non mi interessano. È il barone che io voglio. È tornata la cavalleria?

— Sì, signore, e senza aver scoperte le tracce dei fuggiaschi — disse il cadì. — Il cristiano ed i suoi complici non devono essersi nascosti nei dintorni d'Algeri.

— Tale è anche la mia convinzione.

— Dove cercarli ora?

— Siete certo che nessuna nave o scialuppa sia uscita dal porto?

— Nessuna, signore. Le galere hanno incrociato tutta la notte e tutto il giorno dinanzi alla rada ed il bey ha proibito a tutte le navi di lasciare i loro ancoraggi sotto pena di morte agli equipaggi.

— Allora è nella campagna che dobbiamo cercarli. Tenete a mia disposizione cinquanta cavalieri, scelti fra i più risoluti ed i meglio montati. Può darsi che questa notte ne abbia bisogno.

— Saranno pronti, signore. Il bey, pur di aver nelle mani tutti gli assassini del capitano generale delle galere, nulla negherà. È necessario dare un esemplare castigo o quei cristiani, che il Profeta danni in eterno, ricominceranno su altri. Intanto domani, per meglio atterrirli, farò impalare sulla gettata del porto i cinque prigionieri che ancora ci rimangono.

— Non parleranno egualmente — disse Zuleik. — Ricordatevi dei cavalieri.

Uscì dal bagno, poco soddisfatto di quel colloquio, ma col pensiero fisso sul mirab. Sentiva per istinto che quell'uomo doveva saperne qualche cosa della fuga del barone, quantunque gli sembrasse strano che un dervis si fosse prestato a proteggere un cristiano, un nemico della religione.

Quando, a notte fatta, giunse al palazzo, trovò il maggiordomo che lo attendeva nel cortile.

— Ebbene? — chiese, affidando il cavallo ai negri accorsi frettolosamente.

— Ho saputo più di quanto speravo, signore — rispose il maggiordomo. — La mia libertà è assicurata.

— Hai ascoltato tutto?

— Non mi è sfuggita una parola.

— Di chi hanno parlato?

— Del cristiano che ha assassinato Culchelubi.

— Mia sorella ed il mirab?

— Sì, signore.

— Hai potuto udire dove si trova?

— Hanno parlato d'un duar e di Medeah.

— Di quale duar? — chiese Zuleik, cogli occhi sfavillanti.

— Lo ignoro, signore, ma suppongo che debba trovarsi sul territorio di Medeah.

— Dunque quel mirab è implicato nella fuga del barone?

— Ormai non vi è alcun dubbio.

— Come mai un mussulmano, capo di dervis ha protetto la fuga del cristiano? — si chiese Zuleik. — Ciò mi riesce inesplicabile. Hai fatto seguire il mirab?

— Sappiamo già dove abita, perché i negri che lo hanno seguito sono già tornati.

— Il luogo?

— Una piccola cuba che si trova dietro alla Kasbah.

— Abita solo?

— Solo, signore.

— Che l'inferno mi bruci se io non gli strapperò il luogo ove si nasconde quel dannato cristiano! — esclamò Zuleik, coi denti stretti. — Ah! Sorella mia, sarò io che vincerò la partita finale. Chiama quattro schiavi, dei più forti e dei più risoluti, negri e non già cristiani o rinnegati. Ed ora silenzio con tutti e bada che se tu pronuncerai il nome di mia sorella ti strapperò la lingua.

Cinque minuti dopo Zuleik lasciava il palazzo seguito da quattro negri armati di moschetti e di yatagan e montati su splendidi cavalli arabi. Per non farsi notare e per meglio assicurarsi di non essere seguito, si diresse verso i bastioni interni dove era facile accorgersi se qualcuno gli si era messo alle calcagna, essendo quella via non frequentata e risalì a piccolo trotto verso la Kasbah. Era quasi la mezzanotte quando, guidato da uno dei quattro negri, che aveva già seguito prima il mirab, giunse dinanzi alla cuba.

Il vecchio doveva essere ancora sveglio perché alcuni fili di luce trapelavano fra le sconnesse porte del santuario.

Legarono i cavalli al tronco d'un fico, poi Zuleik battè, col calcio d'una pistola alcuni colpi, dicendo con voce imperiosa.

— Apri, mirab: ordine del cadì Ben Hamman.

La porta si era subito aperta e l'ex-templario era comparso tenendo in mano una lampada. Vedendo Zuleik, che già conosceva, non potè reprimere un gesto di terrore.

— Che cosa desidera da me Zuleik Ben-Abad? — chiese forzandosi di apparire tranquillo.

— Ah! Tu mi conosci? — chiese il moro, un po' sorpreso. — Meglio così c'intenderemo presto.

Entrò respingendo con una certa violenza il vecchio e piantandogli addosso uno sguardo acuto come la punta d'una spada, gli chiese a bruciapelo:

— Conosci il barone di Sant'Elmo, mirab?

— Chi è costui? Qualche cristiano forse? — chiese l'ex-templario senza abbassare gli occhi.

— Ah! Non lo sai?

— Un mirab non può avere alcuna relazione coi cristiani, né coi rinnegati.

— Sì, un vero mirab non può proteggere i cristiani, — disse Zuleik, — ma tu hai usurpato il tuo titolo o sei un nemico dell'Islam.

— Che cosa vuoi dire, signore?

— Che tu hai protetto la fuga dell'assassino di Culchelubi.

— Io! — esclamò il vecchio, facendosi smorto in viso. — Chi m'accusa di ciò?

— Io, Zuleik Ben-Abad, discendente dei califfi.

— Ebbene, signore, tu ti sei ingannato.

— Che cosa sei andato a fare dunque, quattro ore or sono, nel mio palazzo?

— A chiedere a tua sorella di concorrere alla costruzione di una cuba da dedicarsi ad un sant'uomo.

— E null'altro?

— No.

— Potresti giurare sul Corano che non hai parlato del barone di Sant'Elmo?

Il mirab rimase muto.

— Se sei un vero mussulmano e non hai protetto il cristiano d'accordo con mia sorella, devi giurare.

— E se io mi rifiutassi?

— In tal caso dovrai dirmi dove mia sorella ha nascosto il barone.

— Va' a chiederlo a lei e non a me.

— Mia sorella non me lo dirà, ma tu, come mirab, come nemico dei cristiani, devi confessarmelo.

— Nulla possa dire io, ignorando dove si trovi quel cristiano.

— Tu menti, mirab; uno dei miei servi ha udito tuttociò che hai detto ad Amina. Nega ora, se l'osi, di aver parlato del barone di Sant'Elmo.

— No, non lo negherò, — rispose il vecchio, — ma tu non mi strapperai una sillaba su tutto ciò che riguarda il barone di Sant'Elmo.

— E tu, mirab, proteggi un cristiano!

— Ho protetto un uomo.

— Un cane d'un infedele che ha preso parte all'assassinio di Culchelubi, il più grande difensore dell'Islam! — gridò Zuleik furioso.

— Chiamalo come vuoi, io non parlerò — rispose l'ex-templario con voce ferma. — Puoi uccidermi, puoi martirizzarmi, ma dalla mia bocca nulla apprenderai.

— Lo credi!

— Ho promesso a tua sorella di serbare il segreto e lo manterrò.

— Ti condurrò dal cadì e ti farò torturare finché avrai tutto confessato — gridò il moro.

— E comprometterai tua sorella, — rispose il mirab — e l'onore della tua casa.

Zuleik si era morse le labbra. Per quanto smanioso di conoscere dove si era rifugiato il suo rivale, non voleva spingere le cose fino a far cadere dei sospetti su Amina. Sarebbe stata la rovina della famiglia, un'onta troppo grave pei discendenti dei califfi.

Il mirab però non aveva vinta la partita pronunciando quella minaccia.

— Agirò da me — aveva detto Zuleik.

— Vuoi uccidermi?

— Nessuno me lo impedirebbe.

— Sono un mirab ossia un sant'uomo e la mia morte non rimarrebbe invendicata. Anche un discendente dei califfi non può mettere le sue mani sul capo d'una comunità rispettata anche dal bey e dal Sultano dei turchi.

— Io ti proverò ora il contrario — disse Zuleik che era deciso a tutto. — Non vuoi confessare?

— No — rispose il vecchio con incrollabile fermezza.

— Parlerai tuo malgrado.

Ad un suo cenno i quattro negri erano piombati sul vecchio e l'avevano brutalmente atterrato, stendendolo su un tappeto.

— La fiala — disse Zuleik.

Un negro si tolse dalla fascia una bottiglia di cristallo dorato, ripiena d'un liquido rossastro e che appena sturata sparse per la cuba quell'odore speciale che tramanda il kife, l'ingrediente principale dell'hascish. Strinse fortemente il naso del mirab costringendolo ad aprire la bocca per non morire asfissiato e con un rapido colpo gli versò tutto il contenuto nella gola.

— Ecco che cosa adoperavano i miei antenati per strappare ai prigionieri i segreti di guerra — disse. — Vedremo se tu, vecchio, resisterai.

Il mirab appena inghiottito quel liquido si era irrigidito come se la morte lo avesse sorpreso di colpo. Solamente i suoi occhi erano rimasti per qualche istante aperti, poi a poco a poco si erano chiusi.

— Che sia morto, padrone? — chiese uno dei negri.

— Dorme — rispose Zuleik. — Fra poco sognerà e anche parlerà. Mettetevi intorno alla cuba onde nessuno venga a disturbarmi.

Poi si sedette sulla pietra che serviva di tomba al santo a cui era dedicata la piccola costruzione, aspettando pazientemente che quel misterioso filtro avesse compiuto il suo effetto.

Il mirab effettivamente dormiva, ma non era un sonno tranquillo, anzi. Pareva che delle strane visioni turbassero il suo cervello, poiché di quando in quando alzava le mani e faceva dei gesti come se volesse allontanare delle ombre e delle persone ed il suo respiro diventava sempre più affannoso. Ad un tratto le sue labbra si aprirono per lasciar sfuggire delle frasi dapprima sconnesse. Parlava di fregatari, di guerrieri, di galere, di torture e di Culchelubi. A poco a poco però i suoi discorsi diventarono più lucidi, più chiari. Pareva che un pensiero solo si fosse impadronito del suo cervello; non parlava altro che del pericolo che minacciava il barone. Zuleik, curvo su di lui, lo ascoltava attentamente. Pareva una tigre in agguato.

— Vegliate... vegliate... — diceva il mirab — lo cercano, lo vogliono... apri gli occhi Michele... allarga sempre le tue perlustrazioni... se vi prendono siete tutti perduti... il duar è lontano ma non è al sicuro... Medeah... troppo vicina e anche Blidah... Bada... tuoi amici sulla collina... Zuleik la conosce... e potrebbe tornare sul luogo ove ha già preso altra volta il barone... e mi hai detto che di lassù il duar si scorge... veglia, Michele... veglia...

Zuleik si era alzato mandando un grido di trionfo.

— Il barone è mio!... Il duar... la collina dove l'ho preso dopo la caccia coi falchi... Io troverò quel duar!...

Si era precipitato fuori della cuba senza più preoccuparsi del mirab il quale continuava a parlare.

— A cavallo! — gridò ai negri.

— E quell'uomo, signore? — chiese uno dei servi.

— Lasciate che dorma — rispose il moro. — Non ho più bisogno di lui. In sella e spronate fino al bagno dei Pascià!... Ah! Sorella mia, la partita l'hai perduta!...

Balzò in arcione e partì ventre a terra, seguito dai quattro schiavi. Nel momento che passavano presso la Kasbah, tre persone che dovevano essere rimaste fino allora nascoste fra le rovine delle vecchie case, si erano alzate slanciandosi sulla via.

— È lui, è vero? — aveva chiesto una voce di donna.

— Sì — aveva risposto una voce d'uomo. — Come vedi io non mi ero ingannato, signora.

— Accorriamo!... Forse lo ha martirizzato o ucciso.

Si diressero correndo verso la cuba, la cui porta era rimasta aperta. Erano la principessa mora, vestita da algerina e due dei suoi giganteschi negri. Vedendo il mirab disteso sul tappeto ed immobile, Amina aveva mandato un grido, credendolo morto, ma uno dei due negri, che si era curvato su quel magro corpo, l'aveva subito rassicurata.

— È ancora vivo, signora e si direbbe che dorme profondamente.

— Non vedi alcuna traccia di violenza su di lui?

— Ma no, signora.

— È impossibile che mio fratello si sia accontentato di farlo dormire con qualche sonnifero e che...

Si era bruscamente interrotta, battendosi vivamente la fronte.

Aveva indovinato ciò che era avvenuto, sentendo l'odore caratteristico dell'ascish che usciva dalla bocca del mirab.

— Ah!... Tristo Zuleik! — esclamò. — Il liquore della mia famiglia!... Lo ha fatto parlare e gli ha strappato il segreto.

Era diventata pallidissima e guardava il povero vecchio cogli occhi dilatati dal terrore.

Ad un tratto si scosse, come se avesse presa una rapida risoluzione.

— Hady, — disse volgendosi verso uno dei due negri — hai scelto i cavalli con cura.

— Sono i migliori delle vostre scuderie, signora.

— Affido alle tue cure il mirab. Lo porterai nel mio castello di Thomat e avrai per lui tutte le attenzioni. Quando si sarà svegliato gli narrerai tutto.

— Sì, padrona.

— E tu, Milah seguimi senza indugio al duar. La salvezza del barone dipende dalla rapidità delle nostre cavalcature. Quale ispirazione ho avuto di seguire mio fratello!... Il cuore mi diceva che se la sarebbe presa col mirab, ma fortunatamente sono giunta ancora in tempo per sventare i suoi disegni e sarò al duar prima di lui.

Milah aveva già condotto i cavalli che erano rimasti nascosti in mezzo ad un fitto macchione di aloè gigantesche. La principessa salì in sella e scese la collinetta a galoppo sfrenato, seguita dal negro mentre Hady, preso delicatamente fra le braccia il mirab, si dirigeva lentamente, conducendo il cavallo per la briglia, verso la città.


Note

  1. Storico.