Le pantere di Algeri/Capitolo 4 - L'assalto dei barbareschi

Da Wikisource.
Capitolo 4 — L'assalto dei barbareschi

../Capitolo 3 — Il tradimento del moro ../Capitolo 5 — La mina IncludiIntestazione 29 aprile 2017 75% Da definire

Capitolo 4 — L'assalto dei barbareschi
Capitolo 3 — Il tradimento del moro Capitolo 5 — La mina

4.

L'ASSALTO DEI BARBARESCHI


Gli algerini avevano già invasa l'isola. Approfittando delle tenebre e della nessuna vigilanza dei pescatori, i quali erano ben lungi dall'attendersi quel tremendo uragano peggiore d'una tromba marina, erano sbarcati prima di tutto dinanzi alla borgata che avevano subito espugnata, senza trovare una forte resistenza. Uomini, donne e fanciulli sorpresi nel sonno, terrorizzati dalle urla feroci dei corsari e dai colpi di fucile e soprattutto dalle fiamme che cominciavano a divorare le case, erano caduti in mano ai vincitori come un branco di pecore, lasciandosi spingere verso le galere che avevano gettato a terra i loro pontili onde facilitare lo sbarco. Povera massa di schiavi, che non doveva più rivedere l'isola natìa, destinata a popolare gli orribili bagni d'Algeri, di Tunisi, di Tripoli, di Tangeri e di Sale e gli harem di quei feroci scorridori del Mediterraneo!

Quel colpo, meravigliosamente riuscito, doveva essere stato lungamente pensato e collo scopo d'impedire al castello di ricevere il menomo soccorso da parte degli abitanti dell'isola.

Saccheggiate ed incendiate le abitazioni, i barbareschi, riorganizzate le loro bande, si erano scagliati attraverso l'isola ansiosi di prendere d'assalto quella piccola ma solida rocca che tante volte li aveva respinti e contro la quale nutrivano un odio profondo.

Mentre le quattro galere che li avevano sbarcati e la feluca, si rimettevano prontamente alla vela per andar a gettar l'ancora dinanzi al piccolo seno e aiutare coll'artiglieria i compagni, questi in numero di ben trecento, si erano accostati tacitamente al castello portando con loro buon numero di scale per poter giungere sui bastioni.

La marcia era stata così silenziosa, che quando il barone e gli uomini d'arme s'accorsero della loro presenza, si trovavano già ammassati nel fossato del castello che in quel momento era ingombro di piante acquatiche e quasi asciutto. Il capo d'armi, il vecchio Antioco, era stato il primo a dare l'allarme e ad avvertire il barone e la contessa dell'imminenza del pericolo. Le colubrine tutto di un colpo erano diventate inutili, se non contro le galere che già entravano nella cala sparando i primi colpi, certo contro gli uomini che si trovavano così stretti alle basi della torre e delle bastionate.

— Ci sono già sotto! — esclamò il barone, che non si aspettava di averli così vicini e che credeva di dover prima subire un furioso bombardamento. — Essere nel fossato non vuol dire però che siano sui bastioni e prima che salgano quassù, avranno ben da fare con le nostre spade.

La contessa, che se ne intendeva di cose di guerra quantunque fosse così giovane, durante l'assenza del gentiluomo aveva prese tutte le disposizioni per una valida difesa d'accordo col capo d'armi, quindi la notizia sparsasi che i barbareschi erano già sotto le mura, non aveva sgomentato nessuno. Tutto era pronto per respingere l'assalto e per tener testa alle artiglierie delle galere.

I migliori cannonieri erano stati mandati ai pezzi, disposti parte sulla piattaforma della torre e parte sulle bastionate, e gli altri, compresi i servi, che avevano indossate precipitosamente le corazze, si erano disposti nei luoghi ove una scalata poteva diventare possibile.

Le donne invece erano state mandate nelle cucine a preparare enormi recipienti d'acqua calda e d'olio bollente da rovesciare addosso agli assalitori. Fra marinai, uomini d'arme, scudieri e servi erano una quarantina, numero certamente esiguo di fronte ai barbareschi, ma che potevano opporre una lunga e disperata resistenza dietro le massicce mura del castello.

Il barone, che non si era affatto spaventato apprendendo che gli algerini avevano occupato il fossato, aveva dato il comando di cominciare il fuoco contro le galere che cercavano di gettare le ancore presso la riva per meglio sostenere gli assalitori.

Le tre colubrine e le due bombarde maneggiate dai suoi marinai, avevano aperto subito il fuoco con un crescendo formidabile prendendo d'infilata le tolde delle navi, mentre gli altri rovesciavano nel fossato ammassi di rottami ed enormi caldaie d'acqua ed olio bollente e sparavano moschettate. La contessa incoraggiava le sue donne a portare sui bastioni i proiettili, esponendosi senza paura ai tiri delle galere, mentre il barone alla testa degli uomini d'arme e dei servi, tentava con tutti i mezzi di sloggiare i nemici dai fossati onde impedire loro di collocare le scale o di assalire il ponte levatoio. La battaglia si era impegnata d'ambe le parti con furore estremo, essendo gli uni decisi a non lasciarsi sopraffare, non ignorando quale sorte triste li aspettava e gli altri risoluti a farla finita una buona volta con quel castello che aveva già costato loro tante sconfitte e che era appartenuto a colui che aveva avuto l'audacia incredibile di bombardare la formidabile Algeri. Mentre le colubrine e le bombarde della torre e dei bastioni e quelle delle galere si scambiavano palle e uragani di mitraglia, i corsari del fossato, quantunque oppressi da una pioggia incessante di rottami che schiacciavano i loro elmetti e fracassavano le loro corazze e terribilmente ustionati da torrenti d'acqua bollente che li facevano ruggire come leoni e che strappavano loro urla di dolore, non rimanevano inoperosi.

Un manipolo dei più audaci, aveva assalito il ponte levatoio tentando di spezzare le catene e di sfondare le grosse tavole a colpi di scure mentre gli altri avevano alzate le scale che avevano portate con loro, appoggiandole all'orlo superiore dei bastioni e perfino sulle terrazze del castello.

Ai primi la fortuna non aveva arriso nel temerario tentativo, perché il mastro d'armi che si trovava sulla piattaforma della torre accortosene a tempo, aveva volto verso il ponte una bombarda e con due scariche di chiodi, di frammenti di ferraccio e di pezzi di vetro, li aveva spazzati via in pochi istanti rovesciandoli nuovamente nel fossato morti o feriti.

Gli altri invece, approfittando del fumo delle artiglierie che una calma assoluta manteneva sopra i bastioni, si erano slanciati coraggiosamente all'assalto affollandosi sulle scale e spingendosi in alto fra un urlìo spaventoso che doveva produrre un profondo effetto sugli animi dei difensori, quantunque non nuovi a quelle sanguinose battaglie. Salivano con velocità vertiginosa, come se fossero dotati dell'agilità delle scimmie, tenendo le scimitarre fra i denti, gareggiando per giungere primi, spingendosi, incoraggiandosi, aiutandosi alla meglio. Parevano legioni di demoni usciti dall'inferno. Il barone, che conservava un superbo sangue freddo e che sfidava intrepidamente le palle che scagliavano senza posa le galere, aveva radunato su quel bastione merlato, che era il più basso e quindi il più esposto, tutti gli uomini disponibili. Armato d'una scure d'arrembaggio, picchiava tremendamente sulle scale e sugli elmetti che apparivano presso l'orlo del bastione e che spaccava come se fossero di vetro anziché d'acciaio, dando prova d'un vigore veramente straordinario che non si sarebbe mai supposto in quel giovane che aveva tutte le apparenze femminili.

Quando non arrivava, erano colpi di spada che faceva grandinare sugli algerini, colpi che portati sopra le corazze tagliavano la gola o foravano la nuca. I suoi uomini l'aiutavano vigorosamente, rovesciando di quando in quando qualche scala la quale precipitava nel sottostante fossato assieme a tutti gli uomini che la montavano, fra un urlìo terribile che si tramutava di frequente in uno straziante gemito d'agonia.

Anche le donne, quantunque pallide ed atterrite, non rimanevano inoperose. Colla contessa alla testa, portavano senza tregua pentole d'acqua bollente che rovesciavano addosso agli algerini facendo fumare le loro carni che le corazze non bastavano a riparare o accecandoli barbaramente.

Il fossato s'ingombrava di morti, di feriti, di storpi, pure non pareva che il numero degli assalitori scemasse. Nuova gente accorreva dalle galere le quali avevano messo in acqua le scialuppe e appoggiavano nuove scale tentando di conquistare quel bastione così ostinatamente difeso.

La lotta diventava mostruosa, terribile. Invano il barone tentava di far fronte dappertutto e si esauriva in vani sforzi.

Aveva fatto chiamare anche gli uomini della torre in suo aiuto, ma purtroppo prevedeva il momento di venire sopraffatto da quella marea umana che nessun sforzo valeva ormai a trattenere.

Rovesciata una scala, altre tre o quattro venivano appoggiate e si coprivano tosto di barbareschi i quali si spingevano all'assalto con nuova lena, scagliando picche e scuri sul bastione per allontanare i difensori e perfino frecce incendiarie spalmate di resina che lanciavano sulle terrazze e dentro le finestre per tentare di mettere il castello in fiamme.

Anche verso il ponte levatoio i corsari s'accanivano per sfondarlo ed irrompere nel cortile d'onore. Non più fatti segno ai colpi delle bombarde che i difensori del maniero, troppo scarsi, avevano dovuto abbandonare, erano già riusciti a tagliare le catene e ne spaccavano ora le tavole per aprirsi un varco. Il barone, colla morte nel cuore, vedeva avanzarsi l'istante in cui i suoi uomini non sarebbero stati più capaci di tener testa a tutti quei nemici che né i colpi d'archibugio, né di spada, né di mazze, né di scuri potevano ormai trattenere dal salire.

Il capo d'armi, il vecchio Antioco, gli si era accostato, dicendogli con voce affannosa:

— Signor barone, stiamo per venire vinti. È impossibile continuare la resistenza.

— Dov'è la contessa? — chiese il gentiluomo, calando su un moro un tale colpo d'ascia da spaccargli ad un tempo il morione ed il cranio.

— Sul terrazzo superiore che precipita i vasi sulla testa degli assalitori.

— Andate a dirle che si ritiri nella torre. È là che opporremo l'ultima resistenza. Tenete pronti quattro uomini onde taglino il ponte. Testa di Ferro!...

Il catalano, che poco prima tirava mazzate sugli elmi dei barbareschi, pur tenendosi prudentemente nascosto dietro un merlo, non rispose.

— Che sia morto? — pensò il barone, mozzando le mani ad un negro che si era già aggrappato all'orlo del bastione. Gettò all'intorno un rapido sguardo.

Cinque o sei dei suoi marinai e alcuni uomini d'armi giacevano intorno a lui, uccisi dai colpi di colubrina delle galere più che dalle spade e dalle frecce degli assalitori, ma non vide fra quei miseri il catalano.

— Avrà raggiunto la contessa — mormorò. — Lo ritroverò più tardi. Poi raccogliendo tutte le sue forze rovesciò la scala che era stata appoggiata presso il suo merlo, quindi risalì rapidamente il bastione, gridando:

— In ritirata! Tutti nella torre!

Nel medesimo istante urla di trionfo risuonavano all'estremità della bastionata. Gli algerini, con uno sforzo supremo, erano riusciti a porre i piedi sulle merlature e si rovesciavano sul terrazzo come una fiumana, cacciando innanzi a loro gli uomini d'arme ed i servi, i quali fuggivano a rompicollo. In mezzo a tutto quel frastuono, al cozzare delle armi, al rimbombo delle artiglierie, alle urla di guerra e di morte, il barone udì un grido:

— Mio Carlo!

Alzò gli occhi verso il terrazzo. Le donne fuggivano disordinatamente verso il ponte che univa il castello alla torre, seco trascinando la contessa, mentre alcuni uomini d'armi battagliavano disperatamente contro un manipolo di barbareschi che erano pure giunti anche lassù e che si sforzavano di rincorrere le fuggiasche.

— A me! — gridò. — Salviamo la contessa.

Una scala metteva dal bastione al terrazzo. Il barone la salì in un baleno senza guardare se era seguito o no da quelli che fuggivano dinanzi alle scimitarre degli algerini, padroni ormai delle merlature, e piombò alle spalle di quelli che tentavano di dare addosso alle donne.

Con pochi colpi di scure si aprì un varco e si unì agli uomini d'arme che guardavano il ponte e che stavano per venire schiacciati e travolti.

— Tenete fermo! — gridò. — Lasciamo tempo alle donne di salvarsi!...

Il ponte che univa il castello alla torre, la quale sorgeva isolata, sulla cima d'una piccola rupe, era di legno quindi facile a spezzarsi e anche a difendersi, essendo stretto.

Il barone, spalleggiato dagli uomini d'arme, dai marinai e dai servi che lo avevano raggiunto, fece subito impeto contro gli algerini che avevano già invaso il terrazzo, e che salivano da tutte le parti, perfino dagli appartamenti interni del castello, essendo riusciti ad abbattere e far cadere il ponte levatoio. Si era scagliato come una tigre in mezzo ai nemici, vibrando gran colpi d'azza a destra ed a manca per cercare di respingerli ed era già riuscito a farsi largo, quando si trovò dinanzi ad un guerriero che aveva la testa chiusa in un morione che gli celava il viso e che l'attaccò con furore, brandendo uno spadone a due mani.

Il giovane gentiluomo aveva avuto il tempo di raccogliere uno scudo lasciato cadere da uno dei nemici a cui aveva spaccato il cranio. Parò con quello il fendente calatogli dal barbaresco e che avrebbe dovuto fracassargli l'elmetto e vibrò un colpo d'azza con tale violenza, che il morione si spezzò in due. Il viso del guerriero infedele apparve d'un tratto, fra le cerniere della sgangherata celata. Il barone, vedendolo, aveva mandato un urlo di rabbia.

— Zuleik! — aveva esclamato. — Per Iddio, questa volta non mi sfuggirai più...

— Sì, Zuleik — rispose l'ex-schiavo, con accento d'odio profondo. — Zuleik che viene a rapire la donna che ama.

— Muori dannato, cane! — gridò il barone, attaccandolo con impeto disperato. Attorno ai due combattenti, i due campioni di quella lotta sanguinosa, si era fatto un po' di largo, quantunque ai loro fianchi, maltesi, uomini d'arme, servi e algerini si scambiassero colpi formidabili facendo scrosciare le corazze e gli elmetti. Il barone, a cui una collera senza limiti aveva triplicate le forze, tempestava ed infuriava cercando di fracassare la corazza del moro e di squarciargli il petto; Zuleik, non meno risoluto a disfarsi del rivale, calava fendenti col suo spadone a due mani che pareva dovessero spaccare perfino le rupi, e trovava sempre sotto la lama lo scudo il quale resisteva a tutti i suoi sforzi.

Si erano scambiati già una dozzina di colpi senza vantaggio né da una parte né dall'altra, tanto erano entrambi abili e destri nel parare, quando verso la torre si udì il vecchio Antioco a gridare:

— Il ponte sta per cadere! In ritirata!

Gli uomini d'arme incaricati di tagliarlo, avevano già quasi spezzate le travi laterali e non aspettavano altro che i compagni passassero per vibrare gli ultimi colpi di scure.

Il barone vedendo che uomini d'arme ed i marinai stavano per slanciarsi attraverso il ponte, non ostante la sua smania di finirla col moro, si vide costretto ad interrompere la lotta per non trovarsi solo contro tutti. Vibrò nondimeno all'ex-schiavo un ultimo colpo che gli schiodò la corazza e che lo fece vacillare, poi in due slanci attraversò il ponte sotto una grandine di picche che gli venivano scagliate addosso.

Aveva appena raggiunta la piccola porta che metteva nella torre, quando le travi caddero con immenso fragore, trascinando nella loro caduta parecchi algerini che avevano voluto tentare il passaggio, sperando di entrare in quell'ultimo baluardo dei castellani assieme ai fuggiaschi.

Per alcuni istanti, dal profondo fossato, si udirono alzarsi grida strazianti, urla ed imprecazioni, poi una nube di polvere coperse morti e moribondi. Gli assalitori, atterriti da quella catastrofe, si erano rovesciati nuovamente sul terrazzo, mentre dalla piattaforma della torre precipitavano pezzi interi di merlature e macigni che fracassavano elmi e corazze e storpiavano membra e spaccavano crani e dorsi e dalla porta del ponte venivano sparati dagli uomini d'arme archibugiate e pistolettate con un frastuono assordante. Il barone, madido di sudore, coll'elmetto mezzo sfondato, la corazza coperta di ammaccature, l'azza sanguinante, si era slanciato su per la tortuosa scala raggiungendo la piattaforma. Colà si erano rifugiate la contessa e le sue donne assieme a marinai della galera i quali caricavano precipitosamente la colubrina e la bombarda.

— Siamo perduti, è vero, Carlo? — chiese la giovane castellana con voce singhiozzante. — Non ci resta che morire.

— Non ci tengono ancora nelle loro mani, Ida — rispose il gentiluomo, gettando via l'azza e l'elmetto. — Se il castello è perduto, la torre è ancora nostra e coll'aiuto di Dio e col valore dei nostri uomini, spero che potremo resistere fino all'arrivo della mia galera o di altri soccorsi. È impossibile che queste cannonate non vengano udite sulla costa sarda e fors'anche fino a Cagliari. Non disperare, ancora, mia fanciulla; gl'infedeli non entreranno facilmente qui.

— Quanto siete prode voi — disse la contessa, guardandolo con ammirazione. — Nessun pericolo vi sgomenta: né le tempeste del mare, né i più sanguinosi combattimenti, né colpi di spada, né colpi di cannone? E non avete che vent'anni!...

Il barone sorrise, ma ad un tratto la sua fronte si offuscò e nei suoi occhi, ancora accesi dall'entusiasmo della battaglia, passò come una nube di tristezza e di sgomento.

— Non vi è che un solo uomo che mi fa paura — disse.

— E chi? — chiese la contessa.

— Zuleik.

— L'avete riveduto?

— Ci siamo incontrati sul ponte, ci siamo assaliti nuovamente, senza che io potessi vibrargli un colpo mortale ed è la seconda volta che ci misuriamo.

— Ma che cosa vuole da noi quel traditore? Perché tanto odio contro di me?

— Odio! — esclamò il barone. — È l'amore che lo ha spinto ad assalire il castello.

— E per chi?

— Per voi, Ida — rispose il barone.

— Zuleik mi ama! — esclamò la contessa, con terrore. — Ero dunque io la donna che gli turbava i sogni! Carlo, io ho paura. Quell'uomo tenterà tutto per rapirmi e spezzare la nostra felicità.

— Lo so, — rispose il barone, — ed è perciò che noi dovremo resistere estremamente fino all'arrivo di soccorsi o sarà la morte per me e la schiavitù per voi. Ma la torre è solida e noi opporremo le nostre spade e le nostre corazze alle scimitarre degli infedeli.

In quel momento il capo d'armi comparve sulla piattaforma seguito dai pochi uomini sfuggiti al macello.

— Signor barone — disse. — La porta è stata barricata e ho fatto preparare una mina alla base della torre, giacché suppongo che anche voi preferirete seppellirvi sotto le rovine, piuttosto che cadere vivo nelle mani di quei pagani.

— Hai fatto bene, Antioco — rispose il gentiluomo, guardando la contessa con angoscia. — Sì, meglio la morte piuttosto che la schiavitù. Quanti uomini ci rimangono?

— Siamo ancora in ventiquattro e le donne.

— E Testa di Ferro?

— È qui.

— Vivo ancora?

— Credo che stia meglio di tutti.

— Metti dieci uomini al servizio dei pezzi; gli altri al primo piano della torre, dietro le feritoie. Abbiamo degli archibugi qui?

— E anche abbondanti munizioni.

— Cerchiamo di resistere più che potremo, almeno fino all'arrivo della mia galera.

— Che cosa potrebbe fare da sola, contro le quattro e la feluca dei barbareschi?

— Spero che non giungerà sola — rispose il barone. — Se le cannonate sono state udite sulle coste della Sardegna, come spero, altre navi accorreranno in nostro soccorso. Va' a collocare i nostri uomini ai loro posti di combattimento e confidiamo nel valore delle nostre spade.