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Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/466

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454 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

Ella non disse parola, lo guardò con occhi velati di dolcezza che tosto si accesero del solito fuoco scuro. Allora non lo guardò più, non potendo reggere alla desiderata vista. Messo il piede sulla stradicciuola che oltre il Santuario serpeggia, ancora piana, per altri vigneti e altri ulivi della costa blanda, chiese timidamente di questo Morto che veniva da Roma. Ricordava che alla Montanina, una sera, appena finito di pranzare, ell’aveva chiesto a Massimo dove fosse sepolto Benedetto e che Massimo aveva risposto: per ora a Campo Verano.

Massimo la informò di ogni cosa ma non toccò la corda che aveva vibrato nella sua lettera. Osò toccarla, discretamente, Lelia. Ripetè sottovoce la domanda:

«Posso fare qualche cosa perchè Ella non sia più triste?»

Poichè Massimo non rispondeva, soggiunse:

«Vedo che lo ama ancora, il Suo Maestro.»

«Sì» rispose Massimo, «lo amo ancora.»

Lo disse con un’agitazione che parve annunciare altre parole. In quel momento una nube coperse rapidamente d’ombra vigneti, ulivi, sentiero e, lungo le rive, una larga lista verde-chiara del lago addormentato. Massimo si fermò. Lelia credette che volesse parlare, attese ansiosa, guardandolo. Egli voleva infatti parlare. Lottò per trovarne la via fra il tumulto dei pensieri e dei sentimenti che cozzavano insieme. Gli si vedevano quasi le parole salire dal cuore e ridiscendere. Ne aveva così chiara coscienza che non dubitò di venire inteso quando, passati due minuti, disse dolorosamente:

«Non posso.»

E si staccò dall’ulivo cui si era appoggiato, invitò Lelia a proseguire, anche perchè verso Lugano il tempo era brutto, Caprino e il San Salvatore si velavano di un velo sospetto. Ella obbedì, mesta. Le doleva che