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Pagina:Malombra.djvu/259

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— Maledetta bestia! — pensò il commendatore. — Si figuri! — diss’egli, asciutto, asciutto.

— Non è vero, zio? — rispose l’altro pigiando sulla parola zio. — Lei se lo può bene immaginare, zio, chi speravo, a buon diritto, abbracciare. Onorevoli signori, loro sono liberi di trarre dalle mie parole, da tutte le mie parole, le induzioni... più legittime, le induzioni... più ragionevoli!

Egli strascicava e ripeteva i sostantivi, meditando l’epiteto, vibrando poi con un ampio gesto oratorio.

— ...Le induzioni... più naturali! Io credo di non poter meglio... sviscerare! dirò, questo vocabolo.

E passò, tronfio, nel salotto.

Il conte non si potè tenere:

Bùrattin — diss’egli fra i denti, in piemontese.

— Eueueuh! — sbuffò il Vezza, sfogandosi. — Lo hai sviscerato.

— Ma!... — disse il Finotti accennando il salotto alle sue spalle col pollice della mano destra e facendo una smorfia eloquente.

Il conte tacque.

— Dobbiamo?... — riprese l’altro stendendogli la mano.

— Uuuh — esclamò il conte.

Era una smentita o un rifiuto sdegnoso di felicitazioni?

Nessuno lo domandò. Non si udirono che le voci del salotto.

Nel salotto la contessa Fosca e Nepo assistevano al pranzo di Marina e di Edith, la quale comprendeva essere di troppo e non vedeva l’ora che il pranzo fosse finito per raggiungere suo padre. Questi passava e ripassava in sala, davanti alla porta aperta del salotto, gittando a Edith delle occhiate strane.

— Dio, che delizia, questo paese, cugina! — disse Nepo, ispirato. — Quell’Orrido, che luogo indimenticabile!

Egli guardava Marina con i suoi grandi occhi miopi, a fior di testa, appoggiando i gomiti sulla tavola.