Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/126

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118 il pedante


Curzio. Fa’ che tu non eschi di casa e, se venissi persona a dimandarmi, fatti lasciare l’imbasciata. Háime inteso?

Trappolino. Signor si.

Curzio. Vieni con esso meco, Rufino, ch’io voglio ch’andiamo a vedere se potessimo trovare qualche danaio in presto da chi sia.

Rufino. Io dubito che noi perderemo i passi, se andamo a speranza de altri.

Curzio. Come! Perché?

Rufino. Perché, oggidí, non si trova amico se non finto e a pena ve Ili prestaranno sul pegno, non ch’altro.

Curzio. Tu dici el vero; ma la necessitá mi sforza de andar alla mercé loro. Ma dimmi un poco: dove dici tu che ti aspettare colei?

Rufino. Ve l’ho pur detto: in casa di Filippa.

Curzio. Orsú! Si vole che, come io sia in Banchi, tu te ne vadi fino a casa sua e che gli dichi ch’io non mancarò di andarvi per ogni modo stanotte e portarogli e’ dinari.

Rufino. Cosí farò. Ah! ah! ah!

Curzio Che hai? di che te ridi?

Rufino. Rido, che voi gli volete dare quelle cose che sete incerto di avere.

Curzio. Come ch’io ne sono incerto? Anzi, el contrario.

Rufino. Bastarla che voi li avessevo in cassa.

Curzio. Per mia fé, che, se io fossi certo d’andargli accatando, son per trovargli. Vadi el mondo come vole, che me delibero de non gli mancare.

Rufino. Si, se potrete. Andate pur lá.

Curzio. Io poterò per certo. Non sai tu che Amore fa i seguaci suoi ingeniosi e scaltriti? Ma maledetto sia el signore ch’è cagione d’ogni mio danno!

Rufino. Patrone, è pazzia a dolersene; per ciò che di continuo ci sono nove materie da dire sui fatti loro e non trovo persona che se ne lodi.

Curzio. Non dire cosi, che ve nne sonno pur assai de quegli che della loro servitú godeno. E, fra gli altri, el Belo, a cui