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108 l’amor costante


Guglielmo. Dico che gli è cosi.

Messer Giannino. Ahi scellerata! Queste mani stesse vo’ che ne faccin vendetta.

Guglielmo. Quanto era meglio, Ioandoro, di seguir ne la corte o di tornarsene a casa che darti in preda d’una donna cosi vilmente!

Messer Giannino. Mio padre, recatevi alla memoria quelli anni vostri piú giovani e m’averete per iscusato.

Guglielmo. Quanto del non esser prete, mi piace, se ben tu ne avesse due milia de li scudi; ch’io non ti mandai in corte perch’io volessi impretirti, cioè ingagliofhrti, perché chi reditarebbe, col tempo, le nostre cose?

Messer Consalvo. Cosí giudico io ancora.

Guglielmo. Ma credi che noi ti volessemo dar per moglie una schiava riscattata come gli è Lucrezia?

Messer Giannino. Ella non è, per quanto io intendo, delle nobili fameglie di Valenzia, ch?

Guglielmo. È verissimo, secondo ch’ella m’ha detto; de la casata de’ Quartigli. Ma eli’ è pur stata schiava.

Messer Giannino. Questo importarebbe poco, pur che non avesse fatta questa vigliaccaria. Ma mio danno, s’io non me ne vendico!

Guglielmo. A quest’ora, debb’esser vendicata; ch’è piú d’un’ora ch’io ordinai che Marchetto gli desse spaccio con una bevanda. Ma ecco fra Cherubino che ce lo saprá dire.

SCENA III

Guglielmo, Fra Cherubino, Messer Giannino,

Messer Consalvo e Marchetto.

Guglielmo. Che fan quei prigioni, fra Cherubino? hanno presa la bevanda?

Fra Cherubino. Messer si. E non m’abbattei mai a un caso cosi compassionevole e che m’accendesse di piú pietá: che non posso ritener le lagrime a ricordarmene.