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136 l’aridosia


Tiberio. Ascolta, Lucido. Quando io volessi fare cotesto (che potrei), egli arebbe causa di dolersi. Ma io lo vo’ pagare insino a un quattrino.

Ruffo. Se questo fusse, noi non aremmo che disputare.

Tiberio. Tu hai aver da me cinquanta scudi: non è cosi?

Ruffo. Si, se vuoi Livia.

Tiberio. Mezzi te li do adesso e il resto domani.

Ruffo. Li voglio tutti ora, che n’ho bisogno.

Tiberio. I’ non credo che mai al mondo fussi il piú arrogante poltrone di costui.

Ruffo. Tiberio, abbi pazienzia. Chi ha bisogno fa cosi.

Lucido. Comportalo insino a stasera.

Ruffo. Non posso.

Livia. Eh! Ruffo, per amor mio.

Ruffo. L’hai trovato! Appunto per amor tuo!

Tiberio. Orsú, Ruffo! Jo ti prometto da vero gentiluomo che stasera, a ventiquattro ore, arai i tua danari.

Ruffo. Chi mi sicura?

Tiberio. Non t’ho io detto che mezzi te li do adesso e mezzi stasera?

Ruffo. Di quelli di adesso sarò io sicuro quando dati me li arai. Ma di quelli altri?

Tiberio. La mia fede.

Ruffo. D’ogni altra cosa sono a vezzo a stare alla fede che de’ danari.

Tiberio. E se io non posso dartegli?

Ruffo. Non dico che me li dia; ma che mi lassi andar con costei.

Lucido. E che! Non s’ha egli a credere a uno uomo da bene,*ter quattro ore, venticinque ducati?

Ruffo. In fine, io son invecchiato in questa usanza.

Tiberio. Ascolta. Io ti do adesso questi venticinque. Se stasera non ti do el resto, vattene a mio padre, che è in villa, e dilli la cosa come la sta. E, se ti vien bene, dilli che io te l’ho tolta per forza (ch’io vorrei innanzi la febbre che egli avessi a sapere niente di queste cose) e richiedigli Livia. Lui subito