Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/315

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prologo 303

né piú di questo capace o piú ampio,
essere entrata Roma senza un minimo
danno di quella stanza. Or, voi trovandovi
in Firenze e vedendo la medesima
cittá, non doverrá entrar ne l’animo
di alcun di voi questi cotali scrupoli;
anzi, quietamente e con silenzio,
stará ognuno a veder questa favola.
In quanto all’argumento, se desidera
alcun d’averlo, levisi dall’animo
questa voglia; per ciò che non è solito
questo nostro autor farlo. E vedetelo:
che, se noi fece allor ch’avea in ordine
(come vedesti) maestro Cornelio,
non lo fará giá or che non ci è ’l medico.
Ma, per dir pur il ver, non è piacevole
l’argumento se non a certi stitichi
a’ quai di compiacer punto non curasi
l’autor: si che abbino pazienzia,
per questa volta, e faccin me’ che possono.
A’ dotti abbiamo a dir che non aspettino
una comedia grave e copiosissima
di sentenzie, come una di Terenzio
o d’altro antiquo; ma tal qual producano
i nostri tempi che, non sendo simili
a quelli antiqui, non è anco miracolo
se non son simil gli uomini e le favole
da lor composte. E, in questo caso, faccino
come le pecchie: tutto il buono piglino,
se però ve ne fia, e l’altro lascino
agli altri, che son piú, a cui basta ridere.
Ma ecco giá gl’istrion che fuori escono.
Da questo vecchio e da un altro simile
vi sará quel ch’a ’ntender questa favola
fa di mestieri detto, se audienzia
lor presterete, come siate soliti.
Ma, per dar luogo loro, a Dio accomandovi.