Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/92

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ATTO IV

SCENA I

Sguazza parasito solo.

Ah! ah! ah! ah! Chi fu al mondo mai più felice di me? chi ebbe mai più bel tempo dello Sguazza? Che papa? che imperadore? che stati? che amori? che robba? O beata gola, o dignissimo palato, o santissimo appetito, quanto obligo vi tengo! che non mi mancate mai nei bisogni. Vi vo’ contar, gentiluomini, in tre parole, com’è andata la cosa. Io me n’andai, poco fa, com’io vi dissi, a casa d’un procurator buon compagno; buon compagno, vi dico: e trovai a punto che s’era posto a tavola e aveva dinanzi una lepretta, stagionata, fratellino, come Dio sa fare. Mi dimandò se io aveva desinato; e io, che avevo dato l’occhietto alla robba che v’era, rispondo subito che no. Ah! ah! ah! Che bisogna ch’io vi dica tante cose? Io mi posi alla santa tavola e, perché lui si sentiva lo stomacuccio, la lepretta toccò tutta a me; e me la mangiai, fratello, con un piacere, con un diletto che mi ci struggevo su. Arei voluto mangiare ancora un pollastro che v’era; ma questo corpicciuolo non poteva più. Venga ’1 cancaro alla Natura che ha ordinato agli uomini si picciol corparello! Basta che ci ha fatto divizia di gambe e di braccia. Che diavolo abbiamo noi a fare di si longhi stincacci e di queste pertiche spalancate? Quanto era meglio farcene assai manco e ridurre il resto a corpo, che importa un poco più! Ma, in fine, gli è fatto cosi e non sarebbe mai altrimenti. Pazienzia! Vaglia per parecchi altri parasiti, che sono in questa terra, che van sempre col corpo vizzo e leggero e non trovan cane né gatta che li musi. E di questo n’è