Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/95

Da Wikisource.

atto quarto 83


Sguazza. Ahi furfante! Mi vo’ trovar ancor io alla guerra con esso voi; che i buoni amici, come io, hanno da essere amici d’ogni tempo.

Vergilio. Parrebbevi, padrone, che si dovesse far intender questa cosa, in Sapienzia, a messer Iannes todesco e a messer Luigi spagnuolo? E non ve ne domando perch’io non conosca che noi siamo per bastar di soverchio; ma, considerando io la strettissima amicizia che tenete insieme con essi, e quante volte v’avete promesso, occorrendo, far saper l’uno all’altro i casi vostri, dubito che, quando sapranno questa vostra quistione, si sdegnaranno di non essere stati chiamati e pigliarannolo per segno che aviate poca confidenzia nella amicizia loro.

Messer Giannino. Non parli male. Però sará buono che tu vada lá con prestezza a farglielo intendere. E metterá’li in casa da la porta di drieto.

Marchetto. Guardati, padrone!

Vergilio. Che arme dico che portino?

Messer Giannino. Non piglino arme in asta, che sarebbe male che fusser visti per la terra con esse; ma venghino con le loro spade ordinarie e coi brocchieri sotto le cappe, che non li sien visti.

Vergilio. Adesso adesso saremo in casa.

Messer Giannino. Marchetto, vatti con Dio. E di quest’animo, che tu vedi che noi aviamo, o dirglielo o non dirglielo, a quella bestia di tuo padrone, mi curo poco io.

Marchetto. Io non gli dirò altro. A me basta che, se voi ramazzate, me ne verrò poi a star con esso voi.

Messer Giannino. È stato buonissimo che Marchetto sappi el tutto perché arei caro che lo referisse a Guglielmo; che sarebbe agevol cosa che, per paura, liberasse Lucrezia senza cavar arme. Entriamo.

Sguazza. Entriamo.