Pagina:AA. VV. – Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, Vol. II, 1920 – BEIC 1928827.djvu/127

Da Wikisource.


I

RUSTICO FILIPPI

I. — Anteriore certo al 17 aprile 1267, quando afferrarono il potere i guelfi, rientrati in Firenze dopo la deliberazione del Comune ghibellino d’inviare un ambasciatore a Perugia per far atto di sommissione a Clemente IV (16 marzo ’66).

II. — Un messer Fastello di Attaviano de’ Tosinghi, nel 1259 podestá di S. Gimignano (Davidsohn, Forsch., II, reg. 763), soffrí nel’60 gravi danni dai ghibellini vittoriosi (Del. d. erud. tosc., VII, 267-9, 280): potrebbe quindi nel son. trattarsi di lui. Ma «Fastello» non era allora nome raro. Non va certo identificato col nostro «messere» (cavaliere) l’omonimo del son. iii, che non è nemmen «donzello». — Montelfi, piccolo castello del Valdarno di sopra.

III. — Principale personaggio, su cui l’epiteto «comare» getta l’ombra accusatrice d’un turpe vizio, è forse il famoso m. Iacopo Rusticucci fiorentino, ancor vivo nel 1269, che Dante proprio per quel vizio collocò tra i dannati (Inf., XVI, 43-5). Cfr. Massèra, in Fanf. d. Dom., XXXVIII, n.° 21 (21 maggio 1916).

IV e V. — Che si riferiscano alla stessa persona, sembrò giá anche al Federici (Le rime di R. di F., p. 43). — Due povere donne, chiamate appunto Gemma e Filippa, abitavano insieme nel 1305 in uno stesso piano della casa di Lippo Aldobrandini, nel popolo di S. Maria Novella (ivi).

VI-VIII. — L’Acerbuzzo e l’Acerbo, che ricorrono in questi tre sonn., saranno probabilmente una persona sola. Acerbo e Cambio (Cambiuzzo) si chiamarono due figli di Iacopo di m. Attaviano dell’Acerbo, del sesto di Porta S. Pancrazio, banditi come ghibellini, insieme col padre e un terzo fratello Neri e altri consorti, nel 1268 (Del. d. erud. tosc., VIII, 258): son essi probabilmente i mariti delle due cognate, di cui parla R. — Compagno dell’Acerbo (vii, 5) potrebb’essere quel Guadagnino, appaiatogli nel son. viii, o anche il fratello Cambiuzzo. — vii, 9: «leonessa»: una donna cosí detta per il suo «gran lezzo» (cfr. xx, 1, 10); si chiamava