Pagina:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu/423

Da Wikisource.

giuseppe battista 417

XVI

MEDEA

     Io diveller mi vanto, io crollar posso,
di lingua acherontea con sacri accenti,
a Pelia gli orni ed a Pirene il dosso,
i vanni ai grifi ed ai pitoni i denti.
     Le nubi ho accolto e le procelle ho mosso,
schiodato gli astri, imprigionato i venti,
alle pallide tombe il grembo ho scosso
e tratto al nostro mondo ho l’ombre algenti.
     Chiamai quaggiú fin dagli eterei calli
la sorella di Febo, argentea luna,
né le giovâro i temesei metalli.
     Di caligini al Sol cinsi la cuna,
e dal volo frenai gli aurei cavalli;
ma con Amore io non ho forza alcuna.

XVII

EROSTRATO

     Rinascete, architetti: incendio insano
i miracoli vostri oggi divora;
l’opra di cento etá disperde un’ora,
l’opra di cento re strugge una mano.
     Ecco, per mio coraggio, infranta al piano
la macchina miglior l’Asia deplora,
e quel sacro delubro, ove s’adora
Delia, deride i terremoti invano.
     Vadane a calpestar soglia regale,
e sia madrina al bambolin di Pella
la dea che nacque ad avventar lo strale;
     ch’io bramo esser famoso, e sia pur ella,
siasi dell’empietá parto fatale,
la fama, quando è grande, è sempre bella.