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Pagina:A proposito dei sonetti di Cesare Pascarella.djvu/12

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4 a proposito dei sonetti di cesare pascarella



I.


Comincio da questa derivazione. Il Bovet, che sul Belli ci ha dato un buon libro, e che è quindi di speciale autorità in proposito, l’ha espressamente affermata: «se non ci fosse stato il Belli (egli ha detto) il Pascarella non sarebbe stato possibile.» E la dimostrazione ne è stata fatta da lui stesso col rammentare i primi sonetti dell’amico nostro e col riferirne alcuni. Da principio anche il Pascarella si tenne infatti pago a cogliere e a fermare nelle rapide linee d’un quadretto, quasi per fotografia istantanea, certi aspetti della vita del popolano di Roma, o di registrarne le voci quasi nel cilindro d’un ingegnoso fonografo: e certo gli atteggiamenti e gli accenti furono allora da lui sorpresi e resi, come dalla plebe stessa che il Belli studiava, così co’ modi stessi che il Belli adoprò. Ma non conviene esagerare. Certe raffigurazioni della realtà non mancarono in altri secoli e in altri dialetti della nostra letteratura per uno svolgimento normale e necessario della poesia giocosa, con singolari somiglianze a quella che oggi pare ai più la propria e speciale maniera del Belli; e può riuscire gradito trovarne qui subito un qualche curioso documento, onde si vedrà che, anche senza il Belli, si poteva avere un genere di poesia su quello stampo che divenne l’onore suo.

Siamo a Venezia, sulla fine del Quattrocento. Una ragazza fa all’amore di nascosto alla mamma; la serva le tiene di mano; la mamma brontola e minaccia inutilmente. In otto sonetti, che il mio bravo Vittorio Rossi ristampò da un opuscoletto edito allora in caratteri gotici, un qualche Belli veneziano del secolo xv (e non fu il solo) ci dà le tre figure e le dispute loro, vivacemente: per esempio, entra Madonna e sgrida la serva Agnesina, perchè non ha ancora dato il becchime alle galline:

Mad. Agnese, le galine muor da fame. —
Agn. Ghe ho pur dà da manzar a la fe’ bona...
Mad. Ma non ghe so sta a véder mi in persona
          Perzò le non fa vuovo [uovo] quele grame.