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Pagina:Abba - Da Quarto al Volturno.djvu/256

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248 i carabinieri genovesi

Alpi, che andavano a trovare i Napolitani, grossi e in fortissime posizioni a Calatafimi, nome strano che, con quel di Marsala e Salemi, faceva sentire un altro mondo, l’Africa, i Saraceni. Camminavano alla testa e sembravano il braccio teso, quasi il gesto dell’anima di tutta la colonna, che dicesse al nemico: Veniamo.

Gran giorno!

L’Italia sapeva già che Garibaldi era sbarcato nell’isola, allora misteriosa, quasi tenebrosa, sebbene splendente alle fantasie per la sua storia; lo sapeva l’Italia e viveva angosciata.... Chi sa? Chi sa? Angosciatissima, e per ben altro doveva essere la Reggia di Napoli, dove il nome di Garibaldi faceva accapponir la pelle coi ricordi del quarantanove, Velletri e Palestrina. Bisogna aver vissuto quei giorni per sentire quel che si sentì allora: e bisognerebbe essere stati laggiù in Sicilia coi Mille, per capire come essi dovettero capir subito, che per la spedizione non esisteva più nulla se la battaglia non veniva pronta e la vittoria piena e sicura. Garibaldi si era proclamato Dittatore; a Lui, quasi con aria medievale, erano corse e avevano reso omaggio le squadre d’insorti dalle parti di Trapani, Mazzara, Sciacca, armate di schioppi da caccia a due canne, a una canna, lunghi da tirar nelle nubi; ma i più non portavano che delle picche. Erano corse a lui venuto d’oltremare, come un