Pagina:Abba - Le rive della Bormida.djvu/112

Da Wikisource.

— 106 —

spietatamente, spingendogliene in gola con una baionetta lunga lunga, che ad ogni tratto si mutava in un serpente.

«Ahimè! — sclamò tastando il letto, e guardando nel buio cogli occhi pieni di quelle immagini, e colla gola arsa d’amarezza disgustosa: — ahimè! che spavento, Gesù Maria! Se durava un altro poco io moriva!»

E diè volta sull’altro fianco, studiandosi di non più addormentarsi, pauroso che il brutto sogno ricominciasse. Stette così un tantino rannicchiato, poi riprese a parlare.

«O che è questo picchio nell’orecchio? Che sia effetto del sangue?»

In quel dire alzava la testa dal guanciale. Il picchio non pareva più un picchio, ma sì un martellare di campane; al quale s’aggiunse un altro suono, noto, terribile, quello del corno, sorta di nicchio marino onde di quei tempi, coma usa in Corsica, andava ne’ monti liguri provveduto ogni casale; sicchè di ladri, d’incendi, di lupi calati l’inverno, si mandava di valle in valle, rapida e lontana la voce.

«Ohe! — gridò allora sorgendo a mezzo, — la campana di C.... stormeggia, e questo è il corno! Signore aiutatemi!»

E balzando dal letto, senza stare a cercar co’ piedi le pianelle, corse a spalancar la finestra; ma di subito preso da più stretta paura, riaccostò le imposte e le tenne socchiuse, quanto potesse guardar fuori con un solo occhio. In quella il cascinaio, i figli, chi dalla porta, chi dai finestrelli, porgendo il capo, si mostravano anch’essi.

«Dunque che cosa accade? — chiese ansando il signor Fedele — ne sapete qualcosa voi?»

Per tutta risposta, uno di quei villani, che s’era insino allora rattenuto per non destare il padrone, e scoppiava dalla voglia, precipitò sull’aja si recò alla bocca il corno, e ne trasse un muggito così pieno ed acuto,