Pagina:Abba - Le rive della Bormida.djvu/243

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dell’ostessa seduta al focolare, spandeva il dolce ricordo domestico; e l’ospite si stimava in casa sua.

Giuliano andò diritto all’oste, il quale era un ometto tondo della persona, lucente nelle guance, e tenuto in sussiego da tre o quattro giogaie, che dal mento gli si digradavano alla sommità del petto; donde tra lo sparato della camicia, uscivano petulanti velli grigi, a guisa di gale. Nelle sue pupille pareva vi fossero due birri appiattati; a mirarne il naso vergolato di mille venuzze accovate sulla punta, si sarebbe detto che da uomo di coscienza, ei non lasciasse uscire dalle sue botti un bicchiero di vino, senza averlo assaggiato. Del rimanente era uomo avvisato molto, ma da mettersi a brani per fare servigio.

«Oste, — gli disse il giovane — la marchesa di G.... ha poderi qua in Alba?

«Poderoni! — sclamò l’oste, maravigliando come altri avesse mestieri di chiedere cosa, che doveva essere nota a mezzo il mondo.

«Ebbene — soggiunse Giuliano — ho un suo cavallo, che voi, se vi fa comodo, manderete al suo gastaldo, appena sia riposato nelle vostre stalle: poi se me ne troverete uno per un paio di giorni, saremo d’accordo sul prezzo con pochi discorsi.

«L’oste dei tre Re serve chi lo comanda; e pel signorino ci ho un cavallo morello, sfacciato, con quattro gambe da cervo...

«Appunto quello che mi occorre tra mezz’ora. Adesso vorrei mangiare....

«Vuol salire di sopra...?

«No..., starò qui.»

L’oste s’inchinò, affilando l’uno contro l’altro due coltellacci da affettare le carni; e Giuliano andò a sedersi ad un deschetto, nell’angolo più solitario di quella sala.

La quale era vasta, e vi stavano mangiando a diversi tavolini, brigate di mulattieri, dagli aspetti robusti;