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Pagina:Abba - Le rive della Bormida.djvu/287

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Il pover’uomo, tornato da menar i cavalli, credè questa volta d’esser pigliato di mira per canzonatura, e già perdeva la pazienza; senonchè l’aspetto di Marta lo accertò che si faceva sul serio. Pensando che s’usciva dal territorio, e che il domani era festa, salì di sopra, si mise indosso i migliori suoi panni e in capo una sorta di cappellaccio, che si poteva assomigliare a una filucca capovolta, e sarebbe tuttavia paragone gentile. Così conciato, prese congedo dalla moglie, e fu in casa alla padrona, dove sedette vicino all’uscio della sala; aspettando che essa e il signorino discendessero dalle stanze, dove Marta gli aveva seguiti.

«Oh la bella musica! — diceva egli tra sè — si direbbe che in questa casa non si può vivere colla pace di Dio! Proprio, chi ha pane, si cava da sè i denti per non mangiarlo...!»

E volgeva gli occhi in sù, come parlasse allo scarpiccìo che s’udiva nelle stanze sopra il suo capo.

Intanto Marta discese, ed egli, levandosi, le chiese se il signorino avesse roba a portare.

«Credo che no — rispose la vecchia — perchè portando roba si farebbe scorgere...»

Rocco arricciò il naso, quasi a una ventata di cattivo odore, ma non parlò; perchè giù delle scale venivano Giuliano e la signora, la quale proseguendo il discorso fatto di sopra, diceva:

«Dunque siamo d’accordo: la casetta sia pur modesta quanto vorrai, ma trovala in un bel sito; e la stanza dove mi metterai a dormire, guardi il mare. Spaccerai qualcuno a dirmi quando dovrò venire a raggiungerti...: ho proprio bisogno d’un’altr’aria... d’un altro cielo...!»

Rocco intenerito a quelle parole, andò fuori ad aspettare; e già, pensando alla casa della padrona disabitata, alle finestre, alla porta sempre chiusa, immaginava le meste risposte, che avrebbe dovuto dare a chi fosse per capitarvi.