70Dispregio il canto; e ruppi giá il mio liuto,
l’arpa mia appesi ai salici:
ho mutato in sonori lamenti la mia canzone,
il mio flauto vibra nel mio dolore con tono spettrale.
La mia gru è trasmutata in istrice, la mia tortora
è diventata come un dragone e la mia colomba pari ad un corvo.
Presi a odiare i palagi dei re,
e desiderai abitare il deserto dell’Arabo.
Figlio mio, lo strazio del tuo esilio mi dilania
e mi abbranca e mi ha cinto di reti, 75e ha portato avvilimento nel mio cuore, e incertezza
nei miei pensieri e nelle mie ossa debolezza.
Ascolto tua madre ogni giorno piangere,
quando te chiama: — Diletto del cuor mio, delizia mia!
chi è colui che dal mio seno ti furò?
chi ti ha reso perduto, o frutto dell’amor mio? —
E come io non fui piú capace di sopportare il suo pianto
né di celare la mia angoscia nell’intimo mio,
la lasciai e mi recai a servire il mio re, che Iddio mi diede per mio benefattore: 80e cosí andai vagando e non trovai riposo e fui errante,
abitando in mezzo a Edom, fra il popolo del mio rogo;
né trovai guarigione per la mia ferita.
Chi mai correggerá il destino che mi spinge a errare e mi abbatte?
Disprezzo i giorni e le notti di pena:
preferisco ad essi la morte — ah, cosí venga!
La vita pesa grave sopra di me, e i giorni
come la sabbia dei mari sopra le mie spalle e sulla mia schiena.
Che cosa vale una vita di affanni?
Giá è venuta su me la fine che mi era destinata. 85Per l’anima amareggiata la vita è come la morte:
e anche se ho molto, poco e molto è uguale per me.
Perché sto io attendendo, per gran numero di giorni e di anni,
di vedere un po’ di bene, come un’orsa rapace, priva di figli, in agguato?
Gli eventi del giorno son figli della faretra, e l’arco loro,
nell’altezza del cielo, è il destino, che mira a me e mi saetta:
e io son posto come bersaglio a questi dardi,
che vengono stringendo il cerchio che io ho segnato.
Mi volgerò ora a parlare al mio unico figlio,
affinché non sia piú per me causa di struggimento.