Pagina:Abrabanel, Juda ben Isaac – Dialoghi d'amore, 1929 – BEIC 1855777.djvu/432

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ma il primo aveva bisogno di questa affermazione gratuita per concordare l’altra sua tesi della redazione originaria spagnuola con il fatto che suo padre avesse sentito il bisogno di tradurre il libro in ispagnuolo e lui di pubblicare la traduzione; e il secondo, qual puro bibliografo, scambiava per l’opera autentica la versione latina. Basta del resto considerare che nella prima metá del ’500 un testo latino, sia pure manoscritto, era ancora molto meno esposto alla dispersione che un testo volgare: e sarebbe strano che fosse avvenuto il caso inverso. Anche uno scrittore ebreo, Joseph Salomon del Medigo, di Candia, scriveva nel 1623 dei Dialoghi come di un’opera in lingua latina1: ma a parte la possibilitá che egli indicasse come «latina» anche la lingua italiana, è probabile che anche lui possedesse semplicemente la versione latina. Latino no, dunque (e maestro Leone non doveva poi essere un gran latinista): ma perché non spagnuolo? Questa era la lingua che Leone doveva conoscere meglio, dopo l’ebraico dei suoi libri e il giudeo-portoghese (per non dire il portoghese addirittura) della sua gioventú: certo nel 1501-’02 la conosceva meglio dell’italiano. In ispagnuolo dice il Montesa, testimonio apparentemente attendibile, che l’opera «fué escrita originalmente del autor», con sí elegante stile che ciascuna nazione nel proprio volgare desiderò tradurla. Ed ecco il Menendez y Pelayo, nel secolo scorso, confortare della sua autoritá questa voce isolata e sostenerne dottamente la tesi2: fondandosi principalmente sugli spagnolismi che abbondano nel testo italiano a noi noto, come razo per «raggio», «a chi» (á qui) per «a cui», e «chiamare» col caso dativo, e simili. Ma alcuni di questi spagnolismi, come gli ultimi due citati, erano allora diffusissimi in Italia: altri, e tutti in genere, son ben naturali in uno scrittore che scrivendo in una lingua mal nota come era per Leone l’italiano, conosciuto piuttosto attraverso l’uso che per dottrina, non poteva sottrarsi all’influsso di una lingua piú familiare, come lo spagnuolo. E accanto agli spagnolismi troviamo, piú frequenti ancora, i latinismi: sí che l’argomento è ben ambiguo. Né sembra probabile che, se l’editore del 1535, che era italiano, avesse sostenuto l’ingente fatica di



  1. Mihthab achus, ed. Geiger (in «Melo chofnajim», Berlin, 1840, p. 29 (cfr. Pflaum, op. cit., p. 151).
  2. Origines de la novela, l. c.: confutato giá ampiamente dal Savino, op. cit., pp. 109-111.