Pagina:Acri - Volgarizzamenti da Platone.djvu/41

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io. L’uno si mostrò stare in sè. Sì. E si mostrò anco stare nell’altre cose. Sì, anco. Per tanto, conciossiachè ei sia nell’altre cose, tocca quelle: e conciossiachè ei sia in sè, non può toccar le altre cose, ma tocca sè stesso. Egli pare. E, così, l'uno tocca sè, e le altre cose. Sì. Ma, poni mente, ciò che tocca alcuna cosa, non è di bisogno che le giaccia di costa, tenendo il luogo che viene immantinenti dopo il luogo di quella? Egli è di bisogno. L’uno, adunque, se tocca sè, dee giacere di costa a sè tenendo: il luogo che seguita immantinente dopo a quello nel quale egli è. Deve. Ma l'uno per far questo, e per istare in due luoghi, è mestieri sia due; chè infinoattanto sia uno, non puote. Senza dubbio. Ond’eguale necessità è l’uno non sia due, e l’uno non si tocchi. Uguale. Ma nemmanco tocca le altre cose. Perchè? Perchè s’è detto, che ciò che tocca, discernendosene bisogna giaccia d’allato alla cosa la quale è toccata, e nessuna terza ci stia in mezzo. È il vero. Per questo, perchè ci sia toccamento, al manco fa mestieri ci sian due cose. Sì. E dove a esse due s’aggiunga una terza, elleno son tre, ma due i toccamenti. Senza fallo. E, seguitamente, ogni fiata tu aggiunga una cosa, tu aggiugni un toccamento; inguisachè ne viene i toccamenti essere manco di uno, in comparazione alle cose che si toccano. Conciossiacchè, di quanto le prime due cose che si toccano avanzano i toccamenti, di tanto qual numero di cose tu aggiunga avanzerà quelli, cioè di uno; dappoi che insieme a ogni cosa che aggiunga; tu non aggiugni che solo un toecamento. Tu di’ bene.