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23. La riforma del sistema giudiziario


L’ultimo capitolo ci porta quasi naturalmente a una riflessione finale, in questo caso assai sofferta, sul grado di violenza con cui il sistema giudiziario degli Stati Uniti d’America sia solito reagire nei confronti di reati connessi al mondo digitale e delle informazioni. Non si tratta, si badi, di un approccio tipicamente nordamericano: in quasi tutti i Paesi, Italia compresa, si è agito spesso, e ancora si (re)agisce, allo stesso modo.

Uno degli aspetti più tristi, e critici, di tutta la vicenda di Aaron Swartz, se riflettiamo, è quello che coinvolge il sistema della giustizia penale in generale e, in particolare, l’uso di determinati reati – crimini informatici, terrorismo, pedopornografia – come “scusa” per prevedere clamorose indagini su larga scala (crackdown) e per individuare delle vittime da punire a titolo di esempio.

Non è possibile, sia chiaro, ricondurre scientificamente, e con prove certe, l’atto del suicidio di Aaron all’aggressività delle vicende processuali, esito del caso JSTOR. Molti commentatori, però, unirono i due eventi, soprattutto riflettendo sul fatto che le uniche due possibili vittime delle azioni di Aaron – ossia JSTOR e il MIT – si erano praticamente ritirate dal procedimento, o avevano mantenuto una posizione neutrale, e non avevano evidenziato comportamenti criminali, o danni, per cui valesse la pena sollecitare un’azione penale di tale portata o, ancora, intervenire nel procedimento.

Nell’ottica dell’accusa, invece, quello era il caso perfetto nel quale giocare tutte le carte alla base della più rigida normativa sui computer crimes esistente – il CFAA – con le sue pene altissime. Si poteva attaccare direttamente la comunità hacker individuando un loro esponente e portando alla sbarra un profilo, quello di Aaron, che già era stato “perdonato” una volta per la vicenda PACER e che era molto visibile e conosciuto nella comunità tecnica.

Si noti che furono diciassette – diciassette! – i mesi che mantennero Aaron in una sorta di limbo dovuto all’incertezza di possibili sanzioni, all’incubo del carcere, a mutamenti improvvisi della strategia dell’accusa e a tentativi di dialogo, e di patteggiamento, mai andati a buon fine, nell’attesa di una udienza. Diciassette mesi che furono mal sopportati da un profilo psicologico per alcuni versi debole e problematico ma, soprattutto, terrorizzato dalla possibilità di una condanna.

Il sistema penale ha oppresso Aaron con così tanta violenza nella fase preliminare, che non si è neppure arrivati a un processo. Appare quindi giustificata, in conclusione, una riflessione politica su un sistema che, in molti casi, è pensato per intimidire e per mostrare i muscoli portando, così, ad evidenti eccessi processuali, pur in presenza di reati non violenti e senza danni, e che non coinvolgono criminali di professione; un sistema, per di più, che ha costi tali da permettere solo a chi è molto ricco di resistere in giudizio.