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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/105

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lxvii
     Perchè d’un monticel levata in guisa
Fu di pietre durissime ricinta,
Che non potea dal tempo esser conquisa
Nè senza alta fatica in basso spinta.
Del maggior colle su la cima assisa
Ch’ove cade del sol la luce estinta
Guarda all’occaso, e d’oriente al varco
Scorge non lunge a lei sedere Avarco,
lxviii
     Ivi il divo German con l’altro coro
De’ suoi chiari ministri e sacerdoti
Per gli onorati spirti di costoro
Porgon cotali a Dio preghi devoti:
Non rivolgere il guardo a i falli loro,
Che de i santi precetti andaron vòti
Non giustizia opre in te, ma la pietade
Che col tuo gran figliuol n’aprìo le strade.
lxix
     Al qual canto divin presenti furo,
In sembiante lugubre e ’n vesti nere,
Pien di celeste spirto il sommo Arturo
E de’ suoi cavalier l’ornate schiere,
Che ’n silenzio umilissimo e ’n cor puro
Aiutavan di quei l’alte preghiere.
Poi dato tutto al fin, largo s’infonde
Il famoso terren di sacrate onde.
lxx
     Ma in diversa maniera d’altro lato
Fan quei d’Avarco il lor funèbre onore,
Chè poi che i cavalier d’altero stato
Della turba più bassa han tratto fuore,
Dentro alle chiuse mura era portato
Ciascun da’ suoi con lagrimoso onore,
E co i più cari pegni in alto loco
Nel sen riposti a prezioso foco:
lxxi
     Le cui ceneri appresso in ricchi vasi
Di fino or fabbricati o terso argento,
Descritti intorno gli animosi casi
Onde lo spirto lor giaceva spento.
Molti d’essi in Avarco eran rimasi,
Ch’ebber di lui vicino il reggimento,
Che sopra alte piramidi locaro,
Consumate da poi dal tempo avaro.
lxxii
     Gli altri, ch’ebber lontan la patria sede,
Con lunga compagnia di faci accese,
Con l’insegne acquistate e con le prede
Mandati furo al dolce suo paese
Nelle pie man di chi chiamato erede
De’ suggetti ch’avea lo scettro prese,
Con chiaro ambasciador che ben mostrasse
Quanto il loro duro caso al re gravasse.
lxxiii
     Indi lo stuol maggior di quei guerrieri
Che senza nome aver cuopre il terreno
Tutto lontan da’ pubblici sentieri
Ove più de’ due colli allarga il seno
Sopra possenti carri alti destrieri
Traggon ratti rotando, in fin che pieno
Il veggian d’essi, e ’ntorno la campagna
Di tanti che n’avea vòta rimagna.
lxxiv
     Poi fatto ivi di lor sì altero monte
Che troppo a chi ’l vedea pietà commuove,
Tutto il popol miglior con voglie pronte
Nella vicina selva il passo muove;
E con ferro mortal l’annosa fronte,
Senza temere alcun l’ira di Giove,
Dell’antica sua quercia a terra getta,
Che non solea curar pioggia o saetta.
lxxv
     Chi dell’eccelso frassino alte incide,
Ond’ombra si facea, l’aperte braccia,
Chi ’l ghiandifero cerro al piè divide
Dalle attorte radici, e ’n basso caccia;
Quell’olmo abbatte, che co i rami asside
Sopra il vicin, che di cader minaccia.
Rimbomba il bosco e le sue piagge oscure
Per l’alto suon delle taglianti scure.
lxxvi
     Chi co i medesmi carri indietro apporta
Ove mostra il cammin più aperto calle;
Chi per più angusta strada assai più corta
Il depredato bosco ha su le spalle;
Chi traendol per terra a gli altri scorta
Facendo va per l’intricata valle:
Tanto che ’n breve andar fornito il loco
Fu nel bisogno pio del sacro foco;
lxxvii
     Ove poi con dotto ordine locate
Fur le frondi e i gran tronchi in doppi giri,
D’assai tristi lamenti accompagnate
In tra pianti durissimi e sospiri
D’anime miserelle sconsolate,
Che ricordando indarno i suoi martiri
E bramando di quei l’afflitta sorte
Con voci di dolor chiamavan morte.
lxxviii
     Ma già i raggi ascondea nell’occidente
Allora il sol che la campagna imbruna;
Così dentro alle mura amaramente
Nel suo nido natal torna ciascuna.
Lì sol riman della più ardita gente
Chi al freddo corso dell’algente luna
Sia fida guardia alle infelici schiere
Da’ morsi ingordi di rapaci fere.
lxxix
     Gli altri all’albergo vanno, ove riposo
A gli affannati corpi insieme danno,
Poi che fra l’esca e ’l vin rimase ascoso
Di tutti altri e di lor l’avuto danno.
Il medesmo facea col re famoso
Ogni gallico duce, ogni britanno:
Ch’ove manca il rimedio, un nobil core
Il lungo lamentar tiene a disnore.
lxxx
     Poi che di nuovo Apollo all’oriente
Saettava i bei raggi all’aria intorno,
Tosto d’Avarco la dogliosa gente
All’intermesso oprar facea ritorno.
Ma innanzi a tutti in vista riverente,
In oscuro e lugúbre abito adorno,
Tutto coperto il capo, a lento piede
Giva il gran sacerdote Clitomede.