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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/171

Da Wikisource.

xi
     Or come mai potrà lingua mortale
Raccontar tutto a pien l’alto romore?
I colpi orrendi poi d’asta e di strale
Del popol folto ch’or ancide or muore?
Di scende percosso e di chi sale,
Cangiando il viver suo con largo onore?
E la grandine spessa che qui cade
Di sassi e dardi all’arenose strade?
xii
     Ch’ora il pio Blomberisse, or Gossemante,
Che di Tristano il dì compagni furo,
Va con l’asta ferrata indietro e innante,
Scorrendo intorno il combattuto muro
E quale al sommo omai posa le piante,
E di vittoria aver si tien securo,
Percosso in fronte e con pallente faccia,
Senza spirto raccor, tra’ suoi ricaccia.
xiii
     Fa il medesmo Blanoro, il terzo duce,
Che congiunto con lor si trova all’opra;
Che questo a spasmo e quello a morte adduce,
L’un di sotto riverso e l’altro sopra;
E chi contra i suoi colpi si conduce
Non ha scudo a bastanza che ’l ricopra;
Che ’l porfir, l’adamante, o s’altra sia
Pietra più dura ancor, poco saria.
xiv
     Montò spinto da’ suoi superbo in vista
Sopra l’argine estremo il Ner Perduto,
Sì che i miglior guerrier d’intorno attrista
L’oscuro tigre suo, ch’han conosciuto;
E la tema era in lor con danno mista,
Se non tosto giungea con largo aiuto
Blanor correndo al subito romore,
Che gli percosse in un l’orecchie e ’l core.
xv
     E ’l trova, che più d’un già impiagato ave,
E l’acquistato loco si difende,
E chiama i suoi dicendo: Ora ho la chiave,
Che la porta apre, onde il ben nostro pende;
Ma giunto a destra, ove men guarda e pave,
La man sopra di lui Blanoro stende,
E con l’asta mortal, che vien traversa,
Sopra quei, che ’l seguian, tosto il riversa.
xvi
     Non con altro romor nel fondo diede
Del più inchinato fosso delle spalle,
Che scoglio alpestre ch’alla riva assiede
D’aspro torrente, a cui ristringa il calle;
Che di pioggia arricchito, irato il fiede,
E lo sveglie indi e rimbombar la valle
Fa col suo rovinar, tremando i cori
A gli armenti vicini e a’ lor pastori.
xvii
     Non fu ardito guerrier che ciò sentisse,
Che dal danno di lui non prenda essempio,
Fuor che ’l fero Grifon, che sempre visse
D’animo invitto, ma superbo ed empio;
Il qual, Giove biasmando, altero disse:
Donami pur, se vuoi, l’istesso scempio,
Ch’io non curo il morir, mostrando almeno,
Che ’ntrepido il voler riserbo in seno.
xviii
     Cotal parlava allor, credendo morto
Il suo caro cugin, ch’amò cotanto;
Ma come vide poi, ch’era risorto,
Rivoltò in ira di dolore il manto;
Ma il fero Seguran da Marte scorto
Di ridur tutte in polve si dà vanto
Le fortissime porte con la mano,
E di vita e d’onor privar Tristano.
xix
     Vede un grosso troncon, che traggon’ivi
Sei più forti guerrier di quello stuolo,
Versando di sudor dal volto rivi
Con lungo e faticoso affanno e duolo;
Ratto entrato fra lor, d’esso gli ha privi,
E con ambe le mani il prende ei solo,
E se ’l pon sopra l’omero, sì come
Villanella d’agnel tondute chiome:
xx
     E va inverso la porta a largo passo,
E con quello aspramente la percuote,
E sovente addoppiando or alto or basso,
Qual terremoto o folgore la scuote;
Non aspetta Tristan vederlo lasso,
O le speranze sue d’effetto vòte,
Ma stimando in suo cor d’onore indegno
Chi riparo si fa di muro o legno;
xxi
     Chiama a sè Blomberisse e Gossemante,
Dicendo: Or non movete d’esto loco,
Guardando ben l’entrata, mentre innante
Contr’a quel vada, che ne prende in gioco;
Blanoro e ogni altro cavaliero errante,
Che le nemiche spade apprezza poco,
Segua il mio gire in parte, ove quest’alma
Lasserò nuda o l’ornerò di palma.
xxii
     Così detto, la porta in un momento
Quanto ogn’uscio si stende mostra aperta;
Et ei, qual leve stral, qual foco e vento,
Con brevissima schiera seco inserta
Vien sopra Seguran, ch’è troppo intento
Alla vittoria sua, che sperò certa;
E con l’urto improviso in modo il preme,
Che lo stend’ivi col suo tronco insieme.
xxiii
     Indi oltra penetrando tra i guerrieri,
Quel privato ha di membra e quello ancide;
Trova Entello il primiero in tra i più feri,
E la fronte in due parti gli divide;
Aventin getta a gli aridi sentieri
Senza il piè destro, ch’all’albergo il guide,
Euforbo, Amitaone e Forcino
Quel senza braccio e questo a capo chino.
xxiv
     Non con altro terror va tra costoro,
Che famelico lupo a i caldi tempi
Tra le gregge sott’ombra e fa di loro,
Pria che senta il pastor, crudeli scempi;
E i can, ch’al nudo sol gran tempo foro,
Prendendo da i signor dovuti essempi,
Si rinfrescan nel sonno alla verdura,
Che dal raggio d’Apollo gli assicura.