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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/180

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CANTO XX

ARGOMENTO

      L’invitte schiere alfin traggono fuore
Galealto ed il figlio del re Bano,
Onde i nemici n’han sì fier timore,
Che i duci il tentan dissipare invano.
Pugna da prode Galealto, e muore
Trafitto per le man di Segurano,
Che da Tristan poi vinto, privo resta
Della salma del re lacera e pesta.

i
Non avea ancor la sposa di Titone
Imbiancato il sentiero al nuovo sole;
Ma il fido Galealto a cui lo sprone
D’onor l’alma pungea, già surger vuole;
E con ardenti voci in opra pone
I ministri miglior, che in guerra cole;
Che sveglia il buon vicin, chi grida intorno,
Ch’all’orizzonte omai s’appressa il giorno.
ii
     Ma i propri suoi guerrier, nè quei che vanno
Sotto l’insegna pia del chiaro amico,
Di stimolo all’andar mestier non hanno,
Chè sempre ebbero il cor d’ozio nemico;
Or di caldo desio compunti vanno
Di mostrar fuor, che ’l gran valore antico
Non sia spento anco in essi e ch’e’ son tali,
Che posson ristorar gli avuti mali.
iii
     Già in piede e’ Lancilotto e poste ha insieme
Dello stuol suo le candide bandiere,
Che dieci furo; e ’ntorno a l’ali estreme
Locate ha de’ cavai le squadre altere;
Poco lontano a lor l’arena preme
L’ordin medesmo delle folte schiere,
Che ’l buon re Galealto seco avia,
Che l’insegna ventesima compia.
iv
     Va intorno Lancilotto e ’l nome chiama
De’ suoi duci maggiori e dice a tutti:
Chi di voi, dolci amici e fratei, brama
Del nostro lungo amor rendere i frutti,
Non faccia oggi fallir la chiara fama,
Che ’l mondo empie di voi; gli amari lutti
Vendicando degli altri e l’empia sorte
Di sì gran cavalieri e di Boorte.
v
     E sopra il tutto poi prendete cura
Di ben seguire il nostro Galealto;
Nè da lui vi disgiunga orrida e dura
Forza d’altrui, nè di fortuna assalto;
Rimembrando, che d’onta aver paura
Dee, non di morte acerba, il guerrier’alto;
E che sete appellati a ritrar fuora
D’aspra miseria Arturo all’ultim’ora.
vi
     Così detto e tornato al padiglione,
Con le sue stesse man dal capo al piede
L’arme sua tutta integra a torno pone
Al dolce amico e ne l’ha fatto erede:
Il suol di ferro e l’argentato sprone,
Lo schinier sopra e ’l coscial doppio assiede,
Indi il saldo braccial, poi che locato
Alla gola ha l’acciaro e ben serrato.
vii
     La corazza incantata, dura e grave
Troppo alle forze sue gli chioda intorno;
Pongli poscia il piastron, come chi pave,
Che alcuno aspro colpir gli faccia scorno;
Al destro lato poi con salda chiave
Ripon la buffa, dove assiede adorno
Lo spallaccio sì duro, che no ’l possa
Piegar, non che squarciare, umana possa.
viii
     Cingeli poi la spada che Viviana
La donzella del Lago e sua nutrice,
Cinse a lui già, di tempera sovrana,
Con l’altre arme ch’avea nel dì felice,
Ch’al Britanno terren non mostrò vana
La sua virtù d’ogn’altra vincitrice;
Leve al suo braccio solo a gli altri appare
Di soverchio pesante e senza pare.
ix
     La cotta marzial poi, dove splende
Il rosato color col bianco accolto,
Dall’omer manco per traverso stende,
Sì che ’l braccio miglior si truove sciolto;
Il cui solo apparir da lunge rende
Ogni avversario suo di ghiaccio avvolto;
Che del sangue nemico e’ aspersa tale,
Che l’argento alla porpora era eguale.
x
     Vien poi ’l nobil destrier, che candido era
Qual pulito ermellin, che in don gli diede
D’Artur la realissima mogliera
D’onor, di grazia e di bellezza erede,
Allor che de i nemici prigioniera
La trasse fuor delle famose prede;
Per memoria di cui, sempre da poi
L’ebbe in pregio maggior di tutti i suoi.