Vai al contenuto

Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/182

Da Wikisource.

xxv
     E quando veggion poi le bianche insegne,
Ch’han le tre verghe oscure attraversate,
Par che ciascuno in cor timido vegne,
Che l’ha più volte già viste e provate;
E l’ardente desio tosto si spegne
D’assalir, come ier, le squadre armate;
E l’un l’altro, tacendo, in volto guarda,
E quanto puote ancora il piè ritarda.
xxvi
     Sì come il cacciator ch’al vespro cinse
Di tele intorno la spinosa valle,
Ch’al mattin ritrovare il cor si finse
Cervette o damme nel serrato calle,
E con securo andar leve s’accinse;
Quando in vece di lor doppo le spalle
Sente il fero leon ruggire o l’orso,
Che gli fan ricangiar volere e corso.
xxvii
     Ma il chiaro Seguran contrario pare,
Qual si vede talora aspro molosso,
Che per volpe o lepretta seguitare
In gioco è dal pastor di laccio scosso,
Che ’n ver lupo o cinghial, ch’a caso appare,
Lassando l’altre girne, il piede ha mosso
Con più lieto desio; ch’a sdegno avea
Quando fere vilissime offendea.
xxviii
     Spingesi alquanto innanzi e ’l guardo affisa
Sì, che ’l bianco destrier, ch’al mondo è noto,
Che sia quel, che parea, per fermo avvisa,
E che del suo signor non venga vòto;
Cangia il volto, e ’l color nell’improvisa
Vista, come al soffiar d’aquoso Noto
Suol cangiare il seren l’umido aprile,
Che raro usa tener l’istesso stile.
xxix
     Tremagli in seno il cor, trema la mano,
Nè discerne fra sè, che faccia o dica,
Non perch’ei tema il figlio del re Bano,
E non gli sia con lui la guerra amica,
Ma in sì gran novitade adopra invano,
Chè l’invitto valor se stesso intrica,
In quel primo arrivar, ma a poco a poco
Il giel, che dentro avea, divenne foco.
xxx
     E rivoltato a’ suoi dicea: Signori,
Or poss’io ringraziar del tutto Marte,
Ch’ai miei promessi e da me chiesti onori
Non vuole oggi furarne alcuna parte,
Poi ch’oltra ’l mio spsrar conduce fuori
Quell’unico guerrier, di cui son sparte
Già tante glorie e di cui il mondo estima,
Che ’l supremo valor tenga la cima.
xxxi
     Ch’io conosco nel ver, chè ben che in basso
Fosse tutto il poter del gran Britanno,
Fora il trionfo ancor di gloria casso,
Nè compito di lui l’estremo danno,
Fin che non era ancor battuto e lasso
Lancilotto, con quei, che con lui stanno;
Or sendo esso già fuor, l’istesso punto
Fa il nostro faticar nel sommo aggiunto.
xxxii
     Moviam pure animosi alla battaglia,
Cangiando ordine tosto, arme e disegni;
E con più grave acciaro e salda maglia
Di possenti corsier prendiam sostegni;
Che fia miglior per noi, ch’alta muraglia
Assalir di terren, di rami e legni,
Ove un sol val per mille, ove la sorte
I buon per man de’ rei conduce a morte.
xxxiii
     Così detto, ogni duce e cavaliero
Spoglia l’arme più levi e l’altre piglia;
Et ei fece il medesmo e ’n su ’l destriero
Monta, ch’era alto e grosso a meraviglia,
E senza alcun candor del tutto nero,
Che gli diè Radagazo, che ’n Siviglia
Tenea l’impero, il Vandalo onorato,
Che ’n giovinetta età l’aveva amato.
xxxiv
     E ’l tenea Seguran cotanto caro,
Che solo a guerre altere e perigliose,
E ’ncontro a cavalier più d’altro chiaro,
Qual tenea Lancilotto, in opra pose;
Sovra il qual già condusse a fine amaro
Ginglante il forte e fè mirabil cose
In quel tempo primier, che in Gallia venne,
E d’Avarco il cadere in piè sostenne.
xxxv
     Già col nobil caval per ogni parte
Va intorno visitando i suoi guerrieri,
E gli riscalda al gran furor di Marte,
Dicendo: Or valorosi, arditi e feri
Esser convienne e por tutto in disparte
Il neghittoso andar, che facest’ieri,
E seguirme ov’io vada; chè la luce
Sarò del vostro onor, compagno e duce.
xxxvi
     Poi gli rimette in quadro aggiunti insieme,
Qual nel fermo edificio l’architetto
In tra lor l’un con l’altro i sassi preme,
Per sostener più saldo il regio tetto;
Indi con gli altri suoi, mostrando speme
Più che fesse ancor mai nell’alto aspetto,
Sprona il destriero innanzi, a Palamede
Ogni schiera lassando, ch’era a piede.
xxxvii
     Fan l’istesso Tristano e Galealto,
Che l’esercito a piè resta a Gaveno;
Et ei co’ lor cavai muovon l’assalto
Sì che la polve oscura empieva il seno
Non della valle pur, ma l’aria in alto
D’ogni luce ch’avea veniva meno;
Che ’l sol, che i raggi aurati spunta fuore,
Non la può penetrar col suo splendore.
xxxviii
     Sembrava a riguardar, qual’esser suole
Il ciel poi che ’l villan le biade accoglie,
Ch’a i solchi affaticati e i campi vuole
Scarcar pietoso le rimase spoglie;
Che ’l foco sveglia intorno, onde si duole
Fuggendo il serpe nell’ascose soglie,
E ’l fumo adombra tal, ch’ivi ha condotte
Quante tenebre ha in sen l’oscura notte.