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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/199

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xi
     Perch’io vedessi poi di morte avvolto,
Degli avversari suoi trionfo e scherno,
Del mio buon Galealto il regio volto
Per la funesta man del crudo Iberno;
Nudo, di polve e d’atro sangue avvolto
Di tutti i miei pensier tormento eterno;
Ch’ovunque io volga mai gli occhi e la mente,
Qual’io ’l rividi ier mi sta presente.
xii
     Ma poi ch’altro non puosse, a noi conviene
Por con necessità l’animo in pace
In quel ch’è già seguito; perchè avviene
Dal voler di colui che tutto face,
E dentro alle cui braccia il male e ’l bene
De’ miseri mortali accolto giace;
E ’l soverchio dolerse a donna aggrada,
Ch’altro a sfogare il cor non ave strada.
xiii
     Ma il forte cavalier col vendicarse
Debbe aprire il sentiero al suo dolore;
E se trova in ciò far le stelle scarse,
Sappia il mondo lassar con dritto onore:
Or se in altra stagion questa fiamm’arse
D’altro offeso guerriero un nobil core,
Arde ora il mio, che d’Etna il monte sembra,
Se del suo Galealto gli rimembra.
xiv
     E però tutto umile a voi ritorno,
Ogni sdegno primier posto in oblio,
Pregando, ch’a voi piaccia in tal soggiorno
Prender tra i peggior vostri il brando mio,
Ch’io possa ristorar l’avuto scorno
Dall’empio Segurano e ’l fato rio
Del dolce amico, che vedrà dal cielo,
Che di lui mi riman l’istesso zelo.
xv
     Qui finio Lancilotto; e quei che stanno
D’intorno ad ascoltar, ferma fidanza
Han già di ricovrar l’antico danno,
Tal della sua virtude è la speranza;
E ’l lieto bisbigliar, che ’ntorno fanno,
Empiea d’alto romor la regia stanza,
Fin ch’amico silenzio Amaso impose,
Et allora il gran re così rispose:
xvi
     Valoroso figliuol del gran re Bano,
Io non posso negar, che di ragione
Non fosse il mio parlar tanto lontano,
Che di farvi sdegnar mi diè cagione;
Ma sappia il mondo pur, ch’alfin sia vano
De’ più saggi mortali ogni sermone;
Chè spesso in questo o in quel la colpa stende
Di ciò che ’l ciel fra noi dispone e intende.
xvii
     Vero è ch’e’ non adempie il suo volere
Sciolto d’ogni altro mezzo assai sovente,
Ma dal bene o del mal dona il potere
In cui gli aggrada dell’umana gente;
L’altr’ier gli piacque delle nostre schiere
Una parte, qual feo, render dolente,
E consentì fra noi l’ira e lo sdegno,
Per conducer’ al fin l’aspro disegno.
xviii
     Com’or forse bramando, a quel ch’io spero,
D’abbassar di Clodasso il duro orgloglio,
Il fin per Segurano acerbo e fero
Condusse in Galealto, in voi cordoglio,
Onde spento riman lo sdegno altero,
Ch’al nostro navigar si facea scoglio;
Ma in tal guisa adoprando, scorta fida
È più sempre di quel, che ’n lui s’affida.
xix
     Però, caro figliuol, grazie rendemo
Al suo santo volere, onore e lode;
Chè pria che ’l danno suo giunga all’estremo,
Del britannico stuol le preghiere ode;
Il qual del nuovo amore, in che noi semo,
Racconsolato in cor s’allegra e gode,
E per la vostra man bramoso aspetta
Gloria, trionfo, onor, pace e vendetta.
xx
     E quanto oggi e poi sempre amica e cara,
E gioconda mi sia la pace vostra,
Ve ’l mostrerà la man, che non fia avara
Di quanto v’offeriro in vece nostra
Maligante e i compagni, poi che chiara
Farem tornata alle paterne chiostra;
In cui voi tutto solo avrò più in pregio,
Che quanti altri mai fur di nome egregio.
xxi
     Così parlava; e ’l chiaro Lancilotto
Rispondea: Assai mi fia quel puro maore,
Ch’or mi mostrate; il qual m’ha solo indotto,
Non desio di tesor, nè d’altro onore;
Or pria che ’l sole in alto ricondotto
Sovra il nostro terren riscaldi l’ore,
Chiamin l’altere trombe la battaglia,
E riprenda ciascun l’antica maglia.
xxii
     Et io ’ntanto fra’ miei farò ritorno,
E vestirò volando l’armadura,
E di spinger’avanti il nostro corno
Sì che vada il primier, prenderò cura,
Vago di sciorre omai l’empio soggiorno
Delle genti aspre e delle acerbe mura,
Ove alberga colui, che tolto m’ave
Chi solo il viver mio rendea soave.
xxiii
     E mostrerò, sper’io, se la virtude
Di Lancilotto è morta o se indormita
Fu dallo sdegno ardente, che si chiude
In lei, s’al suo signor poco è gradita;
E si potran veder tant’alme nude
Prender nuovo sentier da questa vita,
Chè maledetta ancor di Segurano
Da mille madri fia la cruda mano.
xxiv
     Or non si lasse indarno il tempo gire,
Moviam pur tosto ove il voler mi sprona.
Ma il famoso re Lago a questo dire
Si volge e parla: Altissima corona,
Poi ch’al vostro giustissimo desire
Soccorre il ciel, che i buon non abbandona,
In farvi ritornar congiunto e fido,
Chi d’ogn’altro gran duce avanza il grido;