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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/237

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xxxix
     Che vi piaccia or ch’avete a pien compito
Quanto il dever chiedea del chiaro amico,
Che del figlio e del genero finito
Sia con la morte loro ogni odio antico;
E non rimangano esca al nudo lito
D’empi cani e di corvi e del nemico
Stuol privato quaggiù del lume interno
Per così degna mano indegno scherno.
xl
     Ma consentir vogliate che in Avarco,
Lodando sovra il cielo il vostro nome,
Io torni al miserel, ch’attende, carco
Delle due care e sventurate some;
E che invece prendiate il ricco incarco,
Che premer gli solea le bianche chiome,
La corona, lo scettro e l’aurea veste,
Sì che segno real più non gli reste.
xli
     E non vi sembre un gioco, altero figlio,
Ch’un sì famoso re sia fatto umile
A chi del sangue suo veggia vermiglio,
All’orgoglioso odiar cangiando stile;
E chi l’arme d’Arturo e ’l Franco giglio
D’aver seco altra volta tenne a vile,
Ora a voi mande in semplici parole
Con tai doni a comprar la morta prole.
xlii
     Qui si tacque egli e Lancilotto allora
Quanto può reverente a lui risponde:
La persona degnissima ch’onora
Quanto abbraccia ocean con le largh’onde,
Di Vagorre il mio re possente fora
Con l’aspetto divin che ’l ciel le ’nfonde,
D’aspra tigre acquetar lo sdegno e l’ira,
Quando i morti figliuoi presso rimira.
xliii
     E ciò tacendo pur, che adunque puote
In me sempre di lui figliuolo e servo,
Co’ gran ricordi e con le dolci note,
Che fisse e sculte nella mente servo?
E che mercè delle superne rote
Non son tanto però crudo e protervo
Ch’io ricerchi in altrui più dura sorte
Poi che l’ha il fato suo condotto a morte.
xliv
     E s’or contro a Clodino e Segurano
E molti altri gran duci mi mostrai
Spietato forse, poi che qui lontano
Così morti dal campo gli portai;
Scusimi quello amor, che fu sovrano
A tutti altri veduti o scritti mai,
Verso il mio Galealto, che m’indusse
A far ch’esso di loro ornato fusse.
xlv
     Ma il fei con quello onor, come si vede,
Ch’a sì gran duci e regi convenia,
Tutti coperti d’or la fronte e ’l piede,
Qual potrebbe adoprar madre più pia;
Nè del nudo terreno avean la sede,
Ma di serici drappi e gli fei pria
Purgar le piaghe fuor con l’onde chiare,
E liquor preziosi entro versare.
xlvi
     Et or ch’ogni dever sento appagato,
In quanto è il mio poter, col caro amico,
Lieto mi fò da tale esser pregato
Di render quelli al suo signore antico;
E sarà l’uno e l’altro accompagnato
Da dieci ancor, che ’l suo destin nemico
Non ebber men di lor, quando al ciel piacque
Lassarmi insanguinar dell’Euro l’acque.
xlvii
     Lo scettro e la corona e l’aurea vesta,
Che per prezzo di lor portate avete,
Sian di Clodasso e sappia che in me resta
Di vero onor, non guadagno, sete;
E se la patria mia nuda e funesta
Fece a gran torto, ditegli ch’or miete
Della sememta ria l’amaro frutto,
Che nullo è ancor presso al futuro lutto.
xlviii
     Come ha così parlato, Eleno appella,
E gli dice: Ordinate ch’a noi vegna
De’ più vaghi destrier che portin sella,
Tra quanti son de’ miei schiera più degna;
Ornata sì, ma non si scorga in ella
Altra che di dolor funebre insegna;
Dodici carri poi vengan con essa,
Che mostrin nel color la doglia istessa.
xlix
     E ciscun di quei duci, onde la palma
Mi donò il ciel, la sacra sua mercede,
Sia d’essi ad uno ad un famosa salma,
Coperto, come sta, la fronte e ’l piede;
A i quai, anco potessi render l’alma
Col voler di chi a lor la tolse e diede,
E ritornare in dolci i giorni rei,
Con questa istessa man certo il farei.
l
     Non si ritenne Eleno, ma in un punto
A quanto comandò l’ordine ha dato;
Ch’ad ogni duo corsieri un carro aggiunto
Ha innanzi a Lancilotto appresentato;
Il qual di pietà e di dolor compunto
In sè piangendo del mortale stato,
Secondo il disegnar gli fa disporre,
Poi gli loca in poter del re Vagorre.
li
     Dicendo: Prima a voi, padre famoso,
Oltra ’l divino onor che a ciò ne sprona,
Il presente crudele e doloroso,
Per aprir quant’io v’ami, oggi si dona;
E per mostrarmi poi largo e pietoso
Verso l’avara e perfida corona
Del rio Clodasso e che ’n vecchiezza impare
Come si den l’offese vendicare.
lii
     E ’n fin che ’l dì duodecimo a venire,
Ch’ora incomincierà, non sia compito,
Prometto non lassar di fuore uscire
Arme contra di voi dal nostro lito,
Perchè in secura pace seppellire
Possa i duci onorati e sia fornito
L’ultimo uficio in lor quaggiù richiesto
Verso i morti figliuoi dal padre mesto.