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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/93

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xxv
     Pur devreste saver che Lancilotto,
Che tanto più di voi nell’arme vale,
Se mai seco a battaglia è stato indotto
Assai gloria stimò l’essergli eguale.
Ricercar ne convien guerrier più dotto
E sostegno miglior d’un peso tale,
Perch’impero o tesoro o nobiltade
Non abbatte il furor di tali spade.
xxvi
     Al verace parlar tosto Gaveno
Il volere e l’andar tacito acqueta,
Colmo di sdegno e di vergogna il seno
Che ’l disegnato onor chi può gli vieta.
Ma già intorno al gran re preme il terreno
Schiera di cavalier che ’n vista lieta
Chiede, e per sè ciascun, d’aver l’incarco
Contra ’l duce maggior di quei d’Avarco.
xxvii
     In tra i primi a venir fu Pelinoro,
Boorte appresso e ’l caro suo fratello
Ch’avea d’ogni virtù largo tesoro,
Io dico l’onorato Lionello;
Baveno, il pio cugin d’ambedue loro,
Florio il Toscan, de i Gotici flagello,
Nestor di Gave e ’l saggio Maligante
E quel del core ardito Gossemante.
xxviii
     Fu l’ultimo a venir pensoso e lento
Di Lionese il nobile Tristano,
Che quanto porta in cor più d’ardimento
Tanto più ne i sembianti appare umano,
Dicendo: A chi vorrà lieto consento
Che si vada a provar con Segurano;
Ma quando manchi ogni altro, s’al re aggrada,
Venga in rischio con lui la nostra spada.
xxix
     Quando sente il gran re la degna offerta
Di tai nove guerrier che ’ntorno stanno,
De’ quai tutti ciascun l’impresa merta
Senza molto timor di scorno o danno,
Nella mente real dubbiosa e ’ncerta
L’abbondanza de i buoni apporta affanno,
Che ben sa che d’un sol sì largo onore
Dee di sdegno ingombrar degli altri il core.
xxx
     E poi che i suoi pensier seco rivolse
Senza risposta far tacito alquanto,
Con tai dolci parole al fine sciolse
Il buon voler sotto cortese manto:
Famosi cavalieri a cui Dio volse
D’infinite virtù donare il vanto,
Ma sì pari in tra voi ch’Ei sol porrìa
Per discerner il più trovar la via;
xxxi
     Per non fare a nessun di tanti offesa
E perchè ’l giudicar sovente è torto,
Se la sentenza mia non vien contesa
Da chi veggia di me più dritto e scorto,
Direi ch’a sì onorata e dubbia impresa
Fortuna sia che ne conduca al porto,
E mischiando in chius’urna i nomi vostri
Chi deve esser di voi la sorte il mostri.
xxxii
     E ’n cotal guisa oprando, non ha loco
Il cordoglio d’alcun che sia schernito,
Nè può l’alma scaldar d’orgoglio il foco
A chi più il suo valor senta gradito;
Nè l’intelletto uman, che vede poco,
Dalla nebbia mortal viene impedito
Come in me può incontrar, quantunque a tutti
Mi stringa eguale amor, secondo i frutti.
xxxiii
     Quando ha il suo dir finito, il buon re Lago,
Ch’al principio dell’opra era arrivato,
Risponde: Alto mio re, sì come vago
Degli onori e del ben del vostro stato,
Dirò con umiltà ch’io non m’appago
Del moderato stil da voi lodato
Di porre in man di dea cieca e fallace
Quello in cui tal onor per noi si giace.
xxxiv
     Or non direste voi di mente insana
Chi fabbricar cercando un regio tetto
Rimettesse al voler di sorte vana
Quel che dell’opra sua fosse architetto,
Nè si eleggesse alcun d’arte sovrana
Tra i migliori appellato il più perfetto?
Quanto è poi più da dir, chi in lei ripone
Il pregio d’infinite e tai corone?
xxxv
     Affermo io sì che i nove cavalieri
Tengon d’alto valor sì ben la cima,
Che non porrian fallir d’essa i pensieri
E rendesse a qual sia la voce prima:
Tutti saggi al consiglio, all’arme feri,
Tutti di sommo ardir ciascuno estima;
Pur non si truovan mai fra noi mortali,
Come mostran di fuor, le cose eguali.
xxxvi
     Ma perchè a tanto re pesar devria
Un sì grave giudizio in mezzo porre,
Nè gli saria sentenza utile o pia
Per donare ad un solo a molti tòrre,
Ho pensato in mio cor quest’altra via
Ch’ogni ben ne dimostra, e non s’incorre
Ove invidia col tempo, ira o disdegno
Possa aperto in altrui stendere il regno.
xxxvii
     Quest’è che nell’arbitrio si ripose
De i duci e cavalier che quinci semo,
I quai con voci a tutti gli altri ascose
Nell’orecchie di voi sacro e supremo
Mostriam colui che l’orme valorose
Al lodato sentier d’onore estremo
Più degno di stampar dette il pensiero,
E secondo il dever parlarne il vero.
xxxviii
     E così non potrà l’avversa sorte
Con l’ingiusto giudizio farne oltraggio,
Nè d’invidia o d’amor le luci torte
Discovrire o covrir l’altrui vantaggio.
Quel si può veramente appellar forte
E senza dubbio aversi ardito e saggio
Ch’al pubblico stimar cotale appare,
Il qual rado o non mai si vede errare.