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in arcadia 281

quercia che dava tante staia di ghiande ogni anno!

Col dispiacere d’imaginare le membra recise, Carlone pensava le parole di coloro che nel transitare per la strada osserverebbero quello strazio. Direbbero i buoni: — Che peccato! Così bella quercia! — ; e i cattivi: — Ah, ah! gliel’han fatta a Carlone della Ca’ scura! — E in lui era il rancore d’un sopruso patito; il cordoglio come d’un’offesa atroce, d’uno sfregio ignominioso contro non solo a lui ma a tutta la sua famiglia, ai suoi figlioli, ai suoi nipoti, ai suoi pronipoti.

L’albero resistente e poderoso, per cento e cento anni ancora dopo la sua morte attesterebbe, così deturpato ad ogni primavera, l’antica sconfitta del nonno; significherebbe la rassegnazione, di tanto in tanto rinnovata, a una lontana ingiustizia e a una remota provocazione dell’invidia e dell’orgoglio.

Ah come sarebbe stato meglio che l’avesse buttata giù, troncata di colpo, il fulmine!

Sempre in quei tristi giorni che, solo, scampando allo sguardo altrui, andava alla quercia a contemplarla, Carlone si ripeteva: — Meglio il fulmine! meglio una saetta!

E se l’uno o l’altro dei figlioli gli ricordava l’intimazione del sindaco e diceva: — Bisogna rassegnarsi e potarla — il vecchio ergeva il capo quasi minaccioso rispondendo:

— No!