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242 deifira

dì più il dimenticarla, persino che tu stesso aùsi te a stare più e più e dì e ancora mesi sanza vedere chi t’è inimica.

Pallimacro. Ohimè, Deifira mia, come ti crederò io mai essere a Pallimacro tuo inimica? Tu da me mai non in detti, non in fatti offesa; tu sempre da me onorata e adorata. Io mai a te fui grave o importuno se non forse in troppo amarti con fede e mirabile pazienza. E che più poss’io? Che vuoi tu da me, Deifira mia, che vuoi tu da me?

Filarco. Dicotelo io. Ella così vorrebbe mai ricordarsi di te se non quanto ti vede, e te vorrebbe sempre stare adolorato consumandoti e spasimando per troppo amore. E tanto ti rammento, Pallimacro, che la femmina sa solo o amare o troppo odiare. Presto s’incende uno cuore femminile ad amore; molto più s’infiamma presto di crucci e odio, nè in altro serba costanza alcuna la femmina se non in mantenere gare e crucci. E rammentoti, Pallimacro, che alla femmina, quando ama, sempre piace qualunque cosa faccia e dica chi ella ama, e da lui accetta ogni cosa sempre in migliore parte. Vero e così sempre sdegna e riceve a dispetto e interpetra pure in male tutto ciò che facci chi già gli sia in odio. Tu adunque, quante più cose farai per piacerli, tante più gliene dispiaceranno, e più te ne inimicherà.

Pallimacro. Sarà mai tanta avversità nel nostro amore che io possa credere te essere a me, Deifira mia, nimica. E che vita sarà la mia misera e dolorosa?

Filarco. Anzi sarà libera d’ogni cura e sollicitudine la tua, non amerai; e sarà misera vita a Deifira, quando in lei ardono suoi crucci e suoi sdegni

Pallimacro. E potrò io, che, mai rimanere d’amarti, Deifira mia?

Filarco. Mal si sa quel che si può, se non si pruova.

Pallimacro. Ahimè, Filarco mio, a me interviene come a chi ne porta in petto fitto il ferro, onde con esso vive morendo in dolore, nè dubita che subito sanza esso cadrebbe in morte. Te, Deifira mia, porto io drento al mio petto; teco dì e notte fra me mi ragiono; te sola veggo negli occhi e fronte di qualunque altra bella;