Ti frangerò il mio pane; e quando lassa
Sotto l’arsure mi dirai: "Fratello,
Ardo di sete" io cercherò le lande
In traccia d’acque vive: e se la terra
Non le consente, ti corrò pei solchi
L’onda del ciel nel calice dei fiori.
Che Dio prepara all’augellin che migra.
Sarà giorno di festa il di che ridi;
E se tu piangi, contemplando afflitto
Su le tue guance vereconde il pianto,
Mi scosterò tacendo, e in rispettosa
Lontananza sul campo inginocchiato
Pregherò Dio, che il tuo fardel d’affanni
A le mie spalle imponga. Oh tu non anco
Sai quanta invidia delicata io porti
Alla gentil virtù del Cireneo!
Ma perchè il casto e azzurro occhio reclini
E vai celando con la man di neve
L’esitanza che in porpora ti pinge?
Ti comprendo, o Maria. Per farti lieta,
Rea non sarai; però che sempre è mesta
Quella letizia che di colpa odora.
Profondo abisso dagli umani aperto
Ne divide, lo so. Miseri e stolti!
Questa progenie d’esuli che fugge
Verso il sepolcro, quasi scarso in terra
Fosse il dolore, à meditato molto
E in sapïenti veglie à impallidito,
Per comporsi altri affanni. E ai capricciosi
Moti del suo pensier, spesso discordi
Dal pensiero di Dio, diede il superbo
Nome di legge, e fe’ languire in tetra